e se l'esperimento fossi TU?
Fig. 1, 2, 3 - Marisol Muro
The nanny diaries, 2007
Let me know if I’ve got a chance of ever finding true romance. Let me know how long I’ll wait to meet the guy who’ll share my fate
Masculin, féminin (1966) Jean-Luc Godard
Nessuna “cosa” è data per natura. Questa si presenta “così” poiché tutta la realtà che la circonda è artificio e intenzione. Tutto, infatti, è soggetto a un’operazione di disciplinamento e forgiamento. Assodato questo, esplora quella cosa concentradoti non sul “perché è data”, ma “come è data”.
Stamattina mi scoccia “vagare” tra le fonti bibliografiche per un argomento che devo approfondire... Allorché entro su tumblr e vengo intasata da immagini, che mi hanno fatta sentire come Alex, ne Arancia meccanica, quando era legato e con delle pinze che lo costringevano a tenere gli occhi aperti mentre gli scorrevano sotto gli occhi alcune scene. Questo provocava in lui dolore e disgusto.
Nel mio caso, sinceramente, non importa descriverle nel dettaglio, è invece d’obbligo andare alla sostanza. Quelle immagini, i temi rappresentati mi hanno indotta a pensare: perché non si possono demolire quelle rappresentazioni culturali? C’è un continuo “parcheggiarsi” negli stessi immaginari...
Ripenso alla lezione della mia prof. di francese su Apollinaire. Ho vividamente impresso il momento in cui indicava che i futuristi si impegnavano a propugnare:
“un’arte e un costume che avrebbero dovuto fare tabula rasa del passato e di ogni forma espressiva tradizionale” (ne Treccani, futurismo)
Sostenevano questo in quanto la società moderna, che si stava creando sotto i loro occhi, gli permetteva di immaginare un nuovo mondo...
Dove sta a questo punto lo stimolo per una re-immaginazione?
Vabbè, io ferma a Pasolini, Petri e Volonté
Tempo fa mi chiedevo che senso avesse oggi parlare di "musica di nicchia" vs "musica da massa".
Ero su una piattaforma di streaming di musica, famosissima, logo verde e nero, ogni riferimento è puramente casuale.
... Comunque, becco una playlist che è abbastanza simile al tema di una che avevo precedentemente creato. Ciò che mi incuriosisce è questo potere silenzioso che hanno le piattaforme mediali: il meccanismo della riproduzione/associazione simile. L'identità viene riconosciuta per le presunte affinità e incasellata in una cornice. In questo scenario mi chiedo cosa ne resta dell'unicità dell'individuo!?
Un tempo artisti, intellettuali, storici non si sarebbero battuti per la messa in critica di questo ordine?
La rivoluzione del sistema d’informazioni è stata ancora più radicale e decisiva. Per mezzo della televisione, il Centro ha assimilato a sé l’intero paese, che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza.
P.P.P.
AMEN.
| Madonne e serendipità antropologiche |
INCIPIT:
L'esaltazione delle virtù della distanza che l'esteriorità procura ha senza dubbio la funzione di trasformare in una scelta epistemologica la situazione oggettiva dell'etnologo che fa sì che egli percepisca ogni realtà e ogni pratica, inclusa la propria, come uno spettacolo.
~ Pierre Bourdieu
È un pomeriggio di fine marzo e cammino per le vie del paese di provincia. In strada non c’è nessuno, eccetto il rumore di macchine e di voci lontane… saranno le signore che si aggiornano sulle famiglie, raccontandosi le novità, cosa comune in paese. La mia attenzione viene catturata dagli idoli, dai santi e dalle “madonne chiuse in una teca”, come canta Levante, che si trovano incastonati nei muri. Mi fermo così ad osservare la religiosità che sopravvive in queste zone. È un sentimento religioso che si esprime, essenzialmente, nella materialità delle immagini oramai usurate dal tempo.
Ed ecco che un abitante del luogo si ferma e inizia ad osservarmi con una curiosità indagatrice... se fossi stata un artefatto primitivo, visionato da un trafficante d’arte occidentale di fine Ottocento, sarei passata inosservata. Inizio a insospettirmi, ma dopo un po’ esordisce: “Ma chi c’avi?” (“Cos’ha?”), riferendosi alla teca che sto fotografando. E si mette insieme a me a contemplarla, affermando: “Non ci fici mai casu” (“Non mi ero mai accorto”). Tiro un sospiro di sollievo, e mi ricordo che abito in Sicilia, dove l’incuriosirsi per le attività altrui è un tratto culturale dominante. Gli spiego che mi ha colpito la rappresentazione e mi congedo.
Sulla via del ritorno, inizio a riflettere sull’episodio. É evidente che la mia presenza ha comportato una “crisi” nel suo abituale schema di percezione degli spazi, sul ruolo giocato dalla vista. Ad esempio, David Le Breton in Il sapore del mondo. Un’antropologia dei sensi, al paragrafo La vista è anche apprendimento spiega che:
«alla nascita, il bambino non coglie il significato delle forme indecise, colorate e cangianti, che gli si affollano intorno; poi impara a poco a poco a discriminarle, cominciando dal volto della madre e integrando schemi di percezioni particolari che successivamente generalizza. Per riconoscere, deve conoscere […] La vista prende poco per volta lo slancio, per divenire un elemento fondamentale della sua educazione e del suo rapporto con gli altri e con il mondo (2006, 59, 63)».
La realtà è pertanto una «costruzione sociale», edificata da «un’attività che esprime significativi soggettivi (Berger, Luckmann 1966)», dove «gli occhi non sono semplici recettori rispetto alla luce e alle cose del mondo, ne sono i creatori, nella misura in cui vedere non è il calco di qualcosa di esterno ma la proiezione fuori di sé di una visione del mondo (Le Breton 2003, 68)».
E da quella domanda così sfacciata, comprendo quanto l’atto del guardare, che sembra naturale e spontaneo, é in realtà un’operazione guidata e mediata dalla cultura, nella quale si esperisce e percepisce il mondo attraverso modelli trasmessi localmente (Gusman 2013, 30). A questo punto mi chiedo da dove nasce l’esigenza di vedere il mondo attraverso una sua concentualizzazione declinata in termini di naturalità?
Bibliografia
Berger P. L., Luckmann T., 1966, The Social Construction of Reality.
Bourdieu P., 2003, Per una teoria della pratica con Tre studi di etnologia cabila.
Gusman A., 2013, Sensazioni.
Le Breton D., 2013, Il sapore del mondo. Un'antropologia dei sensi.
|| la Malinowski di Tumblr ||
Durante il proseguire di questa vita, mi capita di incappare in bizzarre contraddizioni borghesi, di ritrovarmi a decriptare movenze e modi di fare. Se però mi fermo un attimo a pensare lucidamente e razionalmente, epurando da qualsiasi forma di emotività: la realtà è abbastanza ovvia. Non c'è bisogno di ragionamenti e di massime confuciane...
Lo so che mi insegnano che c'è sempre una motivazione o una ragione che spinge all'azione, ma io mi rifiuto. Non posso essere un'antropologa h 24.
Come si entra real-mente in relazione con l’altro, dal momento che le singole individualità possono rivelarsi “ingombranti” ai fini relazionali?
Perchè non ci sono momenti dedicati all’approfondimento della possibilità disastrosa dello star insieme?
Ad antropologia, mi insegnano:
la sospensione del giudizio,
le tecniche empatiche,
il relativismo,
l’approccio critico...
=> ma è tutto così astratto e poco sponteneo!
A volte, però, tralasciano che: è importante evidenziare anche la dimensione più istintiva ed emozionale, nata nell’incontro con l’altro!
Vorrei conoscere più studiosi e accademici come Malinowski, uno dei più celebri antropologi del ‘900, che nel suo diario di campo in Papua Nuova Guinea scriveva:
«Pensai al mio atteggiamento attuale verso il lavoro etnografico e verso gli indigeni. Alla mia antipatia per loro, alla mia nostalgia per la civiltà»
- tratto da Giornale di un antropologo, Bronislaw Malinowski, Armando Editore, 1992, p. 106.
Anche se il diario di Malinowski è stato pubblicato postumo: le sue annotazioni - patrimonio dell’Unesco - aprono riflessioni e spunti inediti...
12:46 || meglio forze sinistre che serendipità (pliz)
Al liceo avevo affinità con filosofia, ma proseguii i miei studi con antropologia perché ritenevo che mi desse una preparazione di tipo pratico e meno astratto. Ero arrivata a questa considerazione dopo che mi ero documentata (shame on me! Vabbè ero una bimbaminkia e non si era ancora compiuta “l’ascesi”) su Yahoo answer. Rimasi affascinata dal modo in cui l’utente spiegava gli elementi costitutivi dell’antropologia. E così a diciannove anni scelsi quell’ambito di studio, ignara del potenziale di quella scelta.
Guardando ad oggi, sto leggendo un’intervista, sulle traiettorie dell’antropologia culturale in Italia. L’intervistato, noto antropologo italiano, racconta che si è laureato in filosofia… dato che negli anni ‘50 del ‘900 in Italia non era ancora presente una facoltà di antropologia.
Il passo mi ha lasciata piacevolmente scossa, perché ripenso alle me diciannove che guardava all’antropologia come un puzzle. Avete presente quello da 1000 pezzi, dove i tasselli si dispongono alla rinfusa e viene piuttosto complicato assemblarli, ma succede poi qualcosa che li fa unire coerente-mente…
(Boh. Forse gli spiriti e i demoni, quelli delle culture “esotiche” o “extra-occidentali” che cercano di comprendere gli antropologi, iniziano un po’ a condizionare il corso degli eventi della mia esistenza.)
| GG/MM/AA |
chissà mai che in futuro non si riescano a decodificare immediatamente anche i nostri pensieri?