probabilmente questa cosa non farà ridere nessuno ma la devo condividere, perchè mi ha fatta troppo ridere.
Sto trascrivendo un’intervista *antropologimagicosa*, e nel riascoltare il mio intervistato, tipo stra-intellettuale, composto, equilibrato con le parole, ad un certo punto dice vecchi anziché anziani. Ora, non so perché trovo divertente questo, forse sarà stato questo dosato e (in)consapevole cambio di registro, la sua tranquillità nel switchare da «vecch-» ad «anziani». Per certo la mia ilarità non dipende dallo schernire il mio intervistato…Boh, ora sto cercando di capire perché lo trovo spassoso, indagando il tutto con quel fare da “pensatrice illuminista che ho a volte” e… trovo che non mi faccia più ridere.
💖Che palle che sono💖
| il dolce blaterale, b-l-a-t-e-r-a-r-e |
Da un paio di anni frequento da spettatrice la beauty community italiana dedicata alla cosmesi. All’interno di questo contesto noto che le varie beauty-influencers realizzano linee o prodotti di bellezza che portano il loro nome, una pratica piuttosto antica. Da tempi remoti l'uomo vende prodotti nei quali iscrive discorsi di rappresentazione dell'identità (penso, ad esempio, alla vendita di rosari, acque sante, frammenti di relique, etc,.)
Oggi si assiste ad un discorso nel quale viene commercializzata la propria identità che si trasforma in un'icona da brandizzare. Come nel caso di una beauty influencer, che seguo con piacere, che ha realizzato la sua linea di prodotti di bellezza (lo so, l'uso di «beauty» sarebbe stato più intrigante, ma in italiano suona più evocativo). Nel presentare il suo marchio scrive:
Ho oscurato il nome perché vorrei che la sua persona passasse in secondo piano. È più funzionale analizzare come sta commercializzando il suo prodotto, per indurre il membro della sua community all'acquisto della palette.
In questa descrizione si attenzionano un paio di elementi. Il primo è il voler sottolineare lo sforzo personale e gli anni di intenso lavoro. La nostra società, infatti, imposta il rapporto tra lavoro e uomo in forme quali la fatica, lo struggimento al fine di raggiungere gli obiettivi sperati. Poi, viene inserito il tema delle abilità acquisite, in modo da certificare che sia una persona competente e che il «suo» prodotto sia affidabile.
Nella seconda parte di questa presentazione emerge una criticità, un punto su cui vorrei riflettere. La guru di bellezza «sente il bisogno» di realizzare qualcosa «di uso», utilizzando quelle che «secondo lei sono le migliori blabla», per creare dei prodotti «ascoltando soprattutto la propria community».
Il consumatore è messo nelle condizioni di empatizzare con quel venditore e con i suoi sacrifici ed inoltre sta comprando un prodotto realizzato e negoziato attraverso la partecipazione dei membri della community. Anche se, però, non ci è dato sapere che tipo di ascolto venga adoperato per la realizzazione di questi prodotti. É qui che noto l'ambiguità. Se vuole creare qualcosa di suo, utilizzando le migliori texture da lei scovate, come riesce a creare prodotti insieme ai suoi seguaci? Questo ascolto, forse, verrà perseguito in futuro?
Nella commercializzazione, la beauty-lady mischia istanze personali e collettive: «per me» o «soprattutto per voi». Per un richiamo all’emotività del consumatore, dato che egli appartiene alla sua «community».
Da studentessa di antropologia trovo che questa narrazione sia accattivante e ricca di spunti interessanti per capire come i soggetti imprenditoriali impostino strategie per conquistarsi la fiducia del loro pubblico.
Voi cosa ne pensate? Su cosa sta insistendo questa imprenditrice per presentare il suo prodotto? Cosa ci leggete?
8 agosto || in principio era: “Vabbe’ devo appuntarmi queste cose…”
È legger-mente sconfortante riconoscere, solo al 5 anno di università, che la parte più interessante del mestiere dell’antropologo non sta soltanto nello studio del pensiero di X, Y, Z, ma nel relazionarsi e nel confrontarsi diretta-mente con l’oggetto di studio, cioè con le persone. Le interviste qualitative, che sto realizzando, mi fanno comprendere l’importanza di non tralasciare che, al di là delle teorie, ci sono gli esseri umani in carne ossa.
Quando intervisto — che parolaccia —, quando chiacchiero con i miei “informatori” ho accesso ad un qualcosa — non so come definirlo — che difficilmente trovo nei libri (e credo che non lo troverò mai).
In questi momenti provo sempre qualcosa di diverso, di unico e di irripetibile. Credo che sia un’esperienza
d e s t a b i l i z z a n t e,
che non vorrei declinare attraverso l’opposizione “positivo/negativo”. Quest’esperienza ha degli elementi, almeno così ho rintracciato, in cui mai nessuno la pensa, davvero, come te. Ciascuno è un universo a sé, vive la società, gli stimoli, l’intera realtà in maniera totalmente inedita, diversa. Anche se a volte mi sembra che tutti i pensieri e le persone si muovano uniforme-mente, realizzo che non è così. E così mi lascio trasportare da ciò che il mio interlocutore decide di raccontami, anziché seguire, tendenziosa-mente, la mia linea di pensiero… È arduo, certamente! Cogliere però il punto di vista dell'altro, documentarlo, ascoltarlo è un passo necessario per capire cosa siano questi problemi del e nel sociale.
New word of the day “progressive rock”.
(anche se sinceramente in italiano suona meglio “rock progressivo”).
Non lo so, stasera mi sento abbastanza polemica. Al contempo sto cercando di “accendere” l’antropologa che c’è in me, per addolcire la riflessione con cui sto per stendervi.
Di cosa parliamo questa sera? Di sentimenti amorosi (ahi, come sono banale). Che cosa vi aspettate da una tipa cresciuta con la Disney? xoxo.
Procedo.
Mi sto chiedendo, da circa un’ora, perché nel nostro contesto culturale si cresce con l’idea che dobbiamo sperimentare e nutrire sentimenti d’amore tra noi umani? Più specificatamente, come mai si rintraccia l’esigenza di disciplinare le emozioni che scaturiscono dall’incontro con l’altro, per poi costruirci su qualcosa? Nello specifico:
incontro una persona a me sconosciuta;
per una serie di circostanze cattura la mia attenzione;
la frequento;
se le sue esigenze e i suoi bisogni sono in sintonia = siamo due rette perpendicolari e ci intersechiamo in un solo punto;
se, invece, le istanze sono diverse = siamo due rette parallele, cioè tali da non intersecarci in alcun punto.
Bene, abbozzato questo ragionamento in maniera così brutale che manco uno scienziato sociale positivista, continuo la mia analisi. Questo è quello che ci offre la nostra società: legami tra umani e tra sconosciuti che se si ritrovano copulano, se invece, non sono corrisposti soffrono e si martoriano manco fossero un martire cristiano del I secolo dopo Cristo.
Come mai, nella nostra società, esiste questo “ciclo”? Nel senso perché ci crescono con l’idea di amarci o di star male?
Per comprendere queste questioni, ritengo che sia importante adottare un approccio antropologico per far emergere ciò che molto spesso viene occultato quando si parla di amore.
Ci spingono a credere che l’amore sia qualcosa di spontaneo, ma c’è sempre un processo silenzioso di apprendimento culturale. Ad ogni livello e settore veniamo educati sin dalla nascita. Infatti, se qualcuno non si prendesse cura di noi, moriremo. Non credo che un bambino riuscirebbe a sostentarsi da solo. Di conseguenza l’amore, e tutto ciò che vi orbita intorno, esiste perché c’è un discorso culturale. È stato “qualcuno” che ci ha insegnato a vederlo in una determinata maniera, a essere colpiti da un’estetica; a vederla seguendo “gli opposti si attraggono”; a se “avete passioni in comune è prolifico”. Abbracciamo prospettive e assumiamo atteggiamenti senza saperlo. La cultura, il contesto familiare, le esperienze pregresse in coppia formano l’identità degli amanti.
Io vedo poco spazio nel quale possiamo muoverci liberamente. Gli ideali e l’ambiente ci plasmano. Forse una speranza e una prospettiva di studio diversa la riserbo a quelli incontri che si consumano a occhi chiusi dato che l’occhio scruta indaga registra interpreta... lascerei il resto ai sensi restanti. Chissà cosa succederebbe se ci innamorassimo ad occhi chiusi? Coglieremo forse finalmente l’essenza?
Questo quadro teorico finora proposto è incompleto, perché dovrei supportarlo da un’indagine qualitativa. Dovrei intervistare personalmente chi sperimenta queste dinamiche, per arricchire e sostenere i punti trattati…
Comunque, più studio antropologia e più sclero. Ah, e sto arrivando ad una considerazione: l’unica cosa spontanea del mio contesto culturale è la continua e onnipresente disciplinazione del reale.
Nessuna “cosa” è data per natura. Questa si presenta “così” poiché tutta la realtà che la circonda è artificio e intenzione. Tutto, infatti, è soggetto a un’operazione di disciplinamento e forgiamento. Assodato questo, esplora quella cosa concentradoti non sul “perché è data”, ma “come è data”.
11.01 || 2 luglio
svalvo(la)-menti & l'ignorante coscienza
Ultimamente stanno proliferando, sul mio feed instagram, profili di influencers o, informalmente chiamati da me, simil-intellettuali 2.0 che portano avanti le loro idee in un modo che mi fa pensare. Questi hanno “l’obiettivo” di illuminare e guidare le coscienze, per emanciparle dallo stato di ignorantaggine.
Penso “Operazione nobile, no?”. “No!” (Scusate, ma colgo l’esortazione della mia prof. di Tecniche della ricerca etnografica mi ha sempre detto: “Non accontentatevi mai di come stanno le cose”).
Il motivo della mia disapprovazione dipende dal fatto che queste persone forniscono solo parzialmente i mezzi per l’emancipazione del pensiero critico. Nel momento in cui inculcano - estremizzo, concedetemelo - “questo è giusto da pensare” e quest’altro, invece, “non lo è”: si rafforza la polarizzazione del pensiero. Attraverso le ig stories e i post, gli intellettuali 2.0 offrono modelli e interpretazioni su come pensare e guardare la realtà, così facendo: dove si creano le occasioni per riflettere criticamente? E i momenti in cui i soggetti ripensano e si pongono, attiva-mente, verso quei contenuti?
NB: É sempre bene ricordare, da un punto di vista antropologico, che l’emancipazione o l’ignoranza sono costrutti culturali, dispositivi creati dagli uomini per definire prospettive e condizioni dello stare al mondo.
Umani, troppo umani.
Sono arrivata alla seguente conclusione: tumblr è il social più umano su cui sono stata.
Sí lo so, vi ho rotto giá nel post precedente con la riflessione antropologia, tumblr e umani. Abbondare è sempre meglio, cit.
Dicevo.
Tumblr è il social che ti induce inevitabilmente ad "affezionarti" al mondo interiore delle persone: i racconti del quotidiano, le piccole o grandi sfide, i progetti futuri, le raccolte di pensieri... Si va a definire un setting e un'atmosfera così intima e personale, da non essere disturbata o violata...
vabbè la smetto con queste riflessioni da scrittrice squattrinata.
Vorrei, invece, aprirmi ad una riflessione, se me lo concedi. Per te: cosa significa condividere un post?
giuro che non sto facendo ricerche di mercato per conto di tumblr per migliorare servizi 💔. La mia è solo deformazione professionale h 24.
|| lagne e vicissitudini umane ||
Certe volte vorrei astenermi dal conoscere “cose di antropologia”, perché cado nell’errore di usare la mia formazione professionale per risolvere questioni che, forse, richiederebbero altri approcci e disposizioni. In queste volte vorrei sradicare e disintegrare le metodologie e gli apparati concettuali che sostanziano il pensiero perché possono trasformarsi in una minorazione e ostacolare il processo conoscitivo.
Mi chiedo a questo punto se non sia arrivato il tempo di riflettere sistematicamente sui limiti del mestiere dell’umanista.