| Barbero-gate |
Incuriosita dai meme e dal mio Instagram invaso dal Barbero-gate, che ha coinvolto lo storico e divulgatore italiano Alessandro Barbero, ho proceduto a documentarmi.
Cosa è successo?
Il 21 ottobre Silvia Francia, giornalista del quotidiano italiano La Stampa, intitola la sua intervista con Barbero: “Le donne secondo Barbero: “Sono insicure e poco spavalde, così hanno meno successo”, [come si legge sotto].
Il passo "incriminato" dell’intervista è questo:
Silvia Francia: “Barbero, arrivando a oggi, come mai, secondo lei, le donne faticano tanto non solo ad arrivare al potere, ma anche ad avere pari retribuzione o fare carriera?”.
Alessandro Barbero: "Premesso che io sono uno storico e che quindi il mio compito è quello di indagare il passato e non il presente o futuro, posso rispondere da cittadino che si interroga sul tema. Di fronte all'enorme cambiamento di costume degli ultimi cinquant’anni , viene da chiedersi come mai non si sia più avanti in questa direzione. Ci sono donne chirurgo, altre ingegnere e via citando, ma a livello generale, siamo lontani da un’effettiva parità in campo professionale. Rischio di dire una cosa impopolare, lo so, ma vale la pensa di chiedersi se ci siano differenze strutturali fra uomo e donna che rendono a quest’ultima più difficile avere successo in certi campi. E’ possibile che in media, le donne manchino di quella aggressività, spavalderia e sicurezza di sé che servono ad affermarsi? Credo sia interessante rispondere a questa domanda. Non ci si deve scandalizzare per questa ipotesi, nella vita quotidiana si rimarcano spesso differenze fra i sessi. E c'è chi dice: "Se più donne facessero politica, la politica sarebbe migliore". Ecco, secondo me, proprio per questa diversità fra i due generi".
Ho letto il passo più e più volte, cercando di comprendere cosa avesse detto Barbero per essere investito dalla gogna mediatica che sta avendo luogo sulle varie piattaforme social. È evidente che le parole di Barbero sono state strumentalizzate, per creare notizia (si noti che per accedere all'articolo integrale si deve pagare, ChIsSa PeRChè!1!11!). Se si legge con attenzione Barbero, nel riferire la risposta sta cercando di dare un’ipotesi a ciò che la giornalista ha chiesto. Infatti c’è un punto interrogativo, ma a quanto pare è passato inosservato.
Nelle lezioni di “Metodologia della ricerca etnografica” mi hanno insegnato che quando si costruisce una scaletta di domande si devono evitare domande tendenziose. La giornalista ha posto una domanda tendenziosa-mente, in quanto ha rintracciato già lei uno svantaggio che determina a vita le donne: “le donne faticano tanto”, limitando 'quell'ulteriore' che nasce dal dialogo con l'altro. Io mi sarei chiesta: “Come mai in questo momento storico si discute e si chiama in causa la donna principalmente se ci sono di mezzo questioni di genere?”.
Lo so che viviamo in un sistema sociale organizzato a tal punto che l’uomo è incentivato a esserlo, lo riconosceva già Flaubert che scriveva della disperazione provata da Madame Bovary (1856) nel scoprire che aveva partorito una bambina:
Partorì una domenica alle sei, al levar del sole.
«È una bambina!» disse Charles.
Emma voltò la testa e svenne.
Ad esempio, quando andavo al liceo prendevo l'autobus e notavo che gli autisti erano tutti uomini oppure all’Università che tra i più illustri prof. la maggior parte erano uomini, come tra l'altro sono gli autori che ho studiato nei vari esami. A questo punto non ci vuole un ipotetico "Barbero-alphaman" a far emergere eventuali “differenze strutturali”. C’è un intero sistema organizzato a mantenere e riprodurre asimmetrie di ruolo. Al contempo, però, non posso che guardare critica-mente alla narrazione che descrive il rapporto donna-uomo nel mio contesto culturale e sociale. Non posso permettermi di accettare di riassumerlo attraverso il patriarcato, in quanto ci sono poche occasioni di dibattito critico nelle quali si chiede come si vive il patriarcato o che cosa significa nella quotidianità. Si danno soluzioni preconfezionate, senza chiamare in causa le singole esistenze. Secondo me, il patriarcato non dovrebbe essere né una 'soluzione' né un punto di arrivo, ma un punto di partenza, ovvero? Se c’è questo squilibro uomo-donna iniziamo a capire come viene vissuto e rappresentato a livello esperienziale, per chi lo vive. Chiedendosi ad esempio: come mai in Sicilia si rintracciano poche donne che lavorano per le autolinee? Oppure come mai nelle aule universitarie il pensiero antropologico con cui vengono formati gli/le studenti/studentesse è un sapere prodotto da uomini?
Io non capisco perché sia diventato così ‘automatico’ esprimersi senza aver prima chiesto agli attori sociali; oppure senza aver analizzato a sufficienza le categorie con cui pensiamo il rapporto uomo-donna.
Sitografia
https://www.lastampa.it/topnews/primo-piano/2021/10/21/news/le-donne-secondo-barbero-sono-insicure-e-poco-spavalde-cosi-hanno-meno-successo-1.40833395(intervista Silvia Francia)
|| in-fretta-e-furia ||
Che poi... se si osserva con quella attenzione e con quel rigore scientifico: non esiste nessuna simmetria, non esiste nessun fanatismo delle e nelle forme. I rimandi esistono solo attraverso le ricomposizioni intenzionali, attraverso un meccanismo di separazione e ricostituzione del reale.
Si dovrebbe ricordare sempre che la natura, se vogliamo parlare in questi termini, sarà sempre unica per ragioni culturali, sociali e personali.
Mi chiedo se sono le risposte a disporsi lungo le traiettorie oppure se sia l'essere umano a ricavarle forza-(ta)mente...
Fig.1 - Casual Polar Bear Looking Through a Window || Fig. 2 Archillect
"Diari'' di campo
Margaret Mead, Sto proprio bene e resisto al clima con lodevole coraggio.
Alfred Métraux, Scrivo queste righe sdraiato nel mio sacco e illuminato da una stenta candela
Claude Lévi-Strauss, Mi sembrò che i problemi che mi tormentavano potessero fornire materia per un lavoro teatrale.
Paul Rabinow, Il mondo era diviso in due: quelli che avevano fatto ricerca sul campo e quelli che non favevano fatta
Condivido appieno i tuoi pensieri sulla normalizzazione della diversità attraverso la vendita di bambole raffiguranti ragazze che deviano da quelli che sono i comuni canoni estetici. Non posso però fare a meno di avvertire il rischio che si tratti di un'operazione prettamente commerciale, con l'obiettivo di vendere *anche* a quelle bambine che non sono né bianche né bionde. Tu cosa ne pensi?
Ciao @11-cis-retinale, grazie per la condivisione del tuo punto di vista😊.
Hai perfettamente ragione, sotto un aspetto si tratta di "un'operazione prettamente commerciale", perché queste bambole sono pur sempre un prodotto della e per la società consumista. C'è comunque da aggiungere che, al di là del fatto in sé, queste bambole rappresentano e veicolano messaggi culturali. È lì che, secondo me, diventano funzionali e smettono di essere mera "merce".
17:10 || continua il refresh
Nei primi tempi a Bologna, in università soprattutto, ho incontrato persone nordiche (*) che sostenevano: “Ma voi non parlate, urlate”, riferendosi al fatto che i siciliani hanno un tono di voce abbastanza alto. Al ché da buona patriota ho prontamente rigettato quelle tesi, riconducendole a quell’insieme di stereotipi che danno ai nordici (e anche a quelli del sud) per rendere pensabili le rispettive categorie d’appartenenza.
Circa una decina di minuti fa sento dei ragazzi in strada, qui in Sicilia, che comunicano tra loro quasi gridando. Penserete che: “In fondo lo stereotipo tanto stereotipo non è”, no? Eh no, perché anche se sono sicula non sono riuscita a capire se stavano dialogando o litigando. Resterò col dilemma in eterno...
(*) inteso come gente del nord.
|| Ricorda che la dominazione/estraniazione dall'evento risiede nella sua ripetizione simbolica.
Non lo so, stasera mi sento abbastanza polemica. Al contempo sto cercando di “accendere” l’antropologa che c’è in me, per addolcire la riflessione con cui sto per stendervi.
Di cosa parliamo questa sera? Di sentimenti amorosi (ahi, come sono banale). Che cosa vi aspettate da una tipa cresciuta con la Disney? xoxo.
Procedo.
Mi sto chiedendo, da circa un’ora, perché nel nostro contesto culturale si cresce con l’idea che dobbiamo sperimentare e nutrire sentimenti d’amore tra noi umani? Più specificatamente, come mai si rintraccia l’esigenza di disciplinare le emozioni che scaturiscono dall’incontro con l’altro, per poi costruirci su qualcosa? Nello specifico:
incontro una persona a me sconosciuta;
per una serie di circostanze cattura la mia attenzione;
la frequento;
se le sue esigenze e i suoi bisogni sono in sintonia = siamo due rette perpendicolari e ci intersechiamo in un solo punto;
se, invece, le istanze sono diverse = siamo due rette parallele, cioè tali da non intersecarci in alcun punto.
Bene, abbozzato questo ragionamento in maniera così brutale che manco uno scienziato sociale positivista, continuo la mia analisi. Questo è quello che ci offre la nostra società: legami tra umani e tra sconosciuti che se si ritrovano copulano, se invece, non sono corrisposti soffrono e si martoriano manco fossero un martire cristiano del I secolo dopo Cristo.
Come mai, nella nostra società, esiste questo “ciclo”? Nel senso perché ci crescono con l’idea di amarci o di star male?
Per comprendere queste questioni, ritengo che sia importante adottare un approccio antropologico per far emergere ciò che molto spesso viene occultato quando si parla di amore.
Ci spingono a credere che l’amore sia qualcosa di spontaneo, ma c’è sempre un processo silenzioso di apprendimento culturale. Ad ogni livello e settore veniamo educati sin dalla nascita. Infatti, se qualcuno non si prendesse cura di noi, moriremo. Non credo che un bambino riuscirebbe a sostentarsi da solo. Di conseguenza l’amore, e tutto ciò che vi orbita intorno, esiste perché c’è un discorso culturale. È stato “qualcuno” che ci ha insegnato a vederlo in una determinata maniera, a essere colpiti da un’estetica; a vederla seguendo “gli opposti si attraggono”; a se “avete passioni in comune è prolifico”. Abbracciamo prospettive e assumiamo atteggiamenti senza saperlo. La cultura, il contesto familiare, le esperienze pregresse in coppia formano l’identità degli amanti.
Io vedo poco spazio nel quale possiamo muoverci liberamente. Gli ideali e l’ambiente ci plasmano. Forse una speranza e una prospettiva di studio diversa la riserbo a quelli incontri che si consumano a occhi chiusi dato che l’occhio scruta indaga registra interpreta... lascerei il resto ai sensi restanti. Chissà cosa succederebbe se ci innamorassimo ad occhi chiusi? Coglieremo forse finalmente l’essenza?
Questo quadro teorico finora proposto è incompleto, perché dovrei supportarlo da un’indagine qualitativa. Dovrei intervistare personalmente chi sperimenta queste dinamiche, per arricchire e sostenere i punti trattati…
Comunque, più studio antropologia e più sclero. Ah, e sto arrivando ad una considerazione: l’unica cosa spontanea del mio contesto culturale è la continua e onnipresente disciplinazione del reale.
|| Sarà forse un mio limite
ma difficilmente entrerò in sintonia con i sostenitori dell’ideologia decostruzionista disfunzionale. Mi riferisco a coloro che mirano ad instaurare un regime equo che passa attraverso la demolizione coatta di tutto ciò che non rientra nelle loro concezioni di giusto.
Non capisco perché non si predilige, invece, una scomposizione delle presunte negatività per approfondire e conoscere come vengono vissute da chi le sperimenta nella pratica.
Ancor prima di iniziare l’operazione di demolizione, perché l’analisi non parte da ciò che sta a cuore della gente, da "cosa c’è in ballo?" parafrasando Arthur Kleinman? Invece nell’instaurazione del regime equo tutto scade nel moralismo più tossico, dove gli altri per star bene devono essenzialmente insistere a rigettare e vivere ciò che questi decostruzionisti disfunzionali propinano…