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Attualità - Blog Posts

3 years ago

| Da una questione di in(sensibilità) datata 31 dicembre |

Tutto è iniziato da una mia seccatura.

Mi trovo nella piazza centrale di una cittadina siciliana, visto che è stato organizzato il mercato locale. È un campo che ben si presta alle osservazioni culturali, alla conservazione e alla riproduzione dei rapporti sociali che la pandemia da Covid-19 sta facendo scomparire.

| Da Una Questione Di In(sensibilità) Datata 31 Dicembre |
| Da Una Questione Di In(sensibilità) Datata 31 Dicembre |
| Da Una Questione Di In(sensibilità) Datata 31 Dicembre |

Nello stand dedicato ai prodotti caseari e agli insaccati, stanno venendo soddisfatte le richieste di un anziano signore. Immaginatelo con la sua coppola, con il suo pantalone grigio scuro in flanella, con la sua marcata cadenza dialettale e con il suo modo di parlare “antico”, che durante l’articolazione dei discorsi fa ricorso a proverbi e frasi tratte dalla saggezza popolare. Si trova lì per acquistare generi alimentari che, poi, consumerà in prossimità delle feste. Tra lui e il salumiere si sta instaurando una forma di dialogo confidenziale, che lo spinge a voler conoscere la storia, la provenienza e la ‘corretta’ consumazione del formaggio… forse sarà un antropologo in pensione, dato che la peculiarità del lavoro antropologico consiste nel «tormentare le persone intelligenti con domande stupide (Geertz 1988, 40)». Comunque, il salumiere risponde con professionalità ed empatia. Nel frattempo che si sta consumando lo “scambio” etnografico sul pecorino dei Nebrodi: si sta formando una lunga coda di persone.

Nonostante il forte senso di irritazione, penso alla socialità che si sta manifestando. Questa riesce a prosperare perché mi ritrovo all'interno di un ristretto contesto di provincia, con un rimo di vita meno frenetico e propizio all'incontro del prossimo. Le "minuziose" questioni che pone l'anziano sono il frutto di una consuetudine sociale, dato che:

«la condizione umana non è pensabile se non in termini di organizzazione sociale. L’apprendimento di routine, l’acquisizione di abitudini che s’incarnano nello spirito e nel corpo, dispensano gli uomini dalla necessità di riflettere prendere decisioni in ogni momento. Gran parte dei nostri comportamenti sfuggono alla rappresentazione cosciente, pur obbedendo comunque a regole, pur seguendo un modo adeguato di comportarsi in società. Il senso è incorporato e non rappresentato (Augé, Colleyn 2004, 15, 16)».

Di conseguenza, in questa epoca si delineano nuove pratiche che portano a ripensare il rapporto tra commerciante e cliente, il quale é vissuto maggiormente a livello individuale, come avviene nei market online e “anonimi”. Durante l’acquisto degli articoli, difficilmente, si manifestano le condizioni per acquisire conoscenze fornite dai produttori. Il punto, adesso, non è la svalutazione e il boicottaggio di queste iniziative, ma è necessario ripensarle in chiave critico-sociale:

«Non credo che il comfort vada demonizzato: è stato desiderato e inseguito dall’umanità perché genera innegabili piacevolezze. Interrogare la comodità ha senso perché il processo che l’ha generata è stato sottratto a un esame approfondito sulle conseguenze sensoriali della diffusione degli attuali regimi di consumo. L’umanità contemporanea è stata abituata a non avere dubbi sul fatto che la storia tecnica sia stata un’evoluzione positiva: il passato rappresenta ciò che è arretrato, primitivo, fondato sull’ignoranza; il presente adopera le conoscenze accumulate per migliorare la vita e risolvere innumerevoli disagi; il futuro è teso verso un ulteriore perfezionamento scientifico e tecnologico che spazzerà via, definitivamente le rimanenti limitazioni al benessere umano. Con ossessionante monotonia, e in maniera più o meno subdola, implicita, acritica, mistificata, i promotori dell’ipertecnologia ci inducono a credere che il tragitto esistenziale umano, nel corso della storia, e in particolare nella sua fase moderna e contemporanea, sia da apprezzare come benefico, giusto, vantaggioso, morale, utile (Boni 2014)».

Dunque, queste pratiche che circolano nella nostra esistenza: che ripercussioni hanno con il passare del tempo, in particolare sulla relazione umana? Come mai ci stanno spingendo ad una sua disassuefazione?

Bibliografia

Augé M., Colleyn J.P., 2004, L’antropologia del mondo contemporaneo.

Boni S., 2014, Homo comfort. Il superamento tecnologico della fatica e le sue conseguenze.

Geertz C., 1988, Interpretazione di culture.


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3 years ago

| Patine e saponi |

Se c’è una cosa che ho imparato frequentando questa esistenza: è la capacità posseduta dall'essere umano nel trovare i difetti e le storture altrui per sentirsi migliore. Ho realizzato questo nel momento in cui ho osservato sotto una luce diversa le pagine Instagram che si occupano di “svelare” le falle nella rappresentazione estetica di instagram-models, beauty-stars e influencers.

Da sempre le culture sono interessate a forgiare i corpi in determinate forme ed estetiche. Ad esempio, Francesco Remotti in Cultura sul corpo analizza in maniera dettagliata le pratiche di cura e controllo sui corpi, dato che

«l’essere umano può / deve essere plasmato; […] essendo [...] una sostanza malleabile, simile a “cera”, esso richiede un intervento che gli dia “forma” e “figura” […] l’intervento plasmatore, reso necessario dalla mancanza di forma originaria, è in quanto tale di tipo estetico: ha a che fare immediatamente con la “bellezza” (2015, 5)».

Queste pagine sono solite accostare il termine ‘bellezza’ a quello di 'falso'. Reinventano l’acqua calda in buona sostanza, ma il punto non è questo. Ciò che mi incuriosisce è la loro organizzazione, 'mission’ e leitmotiv.

Il meccanismo di funzionamento consiste nel mostrare il prima/dopo, la fotopostata/realtà, il ieri/oggi di un soggetto (nella maggior parte dei casi si tratta di donne) per far realizzare che tutto è un artefatto, creato dagli interventi chirurgici, dai giochi di luci, dalle angolazioni e da Photoshop.

| Patine E Saponi |
| Patine E Saponi |

(immagini a scopo illustrativo)

La comunicazione adottata da queste pagine è d’impatto, in quanto si affidano ad un silenzioso gioco di potere insito nella riproduzione dell'immagine dell'altro. Dal punto di vista teorico e antropologico, un’immagine non è «soltanto un prodotto di un determinato mezzo», è anche un «prodotto del nostro io, nel quale generiamo immagini personali (sogni, immaginazione e percezioni) che interagiscono con le altre immagini del mondo visibile (Belting 2001, 10)» ed inoltre le immagini dipendono da due «atti simbolici»: «l’atto della fabbricazione e l’atto della percezione (Belting 2001, 11)». Da queste basi, lo spettatore viene, inconsapevolmente, guidato a osservare e sentire l'altro attraverso le sue finzioni, i suoi "difetti" e le sue "deformazioni ", che vengono evidenziate e cerchiate. Ciò comporta una demonizzazione dell'immagine dell'altro, come mostrano i commenti lasciati sotto ai post.

Qualcuno potrebbe risentirsi dalle mie posizioni sostenendo che queste pagine hanno un potere “salvifico”, in quanto ci ricordano che la perfezione non appartiene a noi umani; che la realtà è un’altra oppure che non vogliono screditare quel soggetto rappresentato. Certo è nobile questa operazione di smascheramento e di messa in critica degli idealtipi estetici propinati dal mio contesto culturale, ma a questo punto mi chiedo: 1) come mai il discorso di accettazione personale deve passare attraverso la deturpazione dell’immagine altrui?; 2) perchè non pensare di creare attività volte alla conoscenza delle ragioni e delle motivazioni che spingono i soggetti a ricorrere a quella presentazione?

Bibliografia

Belting H., 2001, Antropologia delle immagini

Eco U., 2004, Storia della bellezza

Remotti F., 2015, Cultura sul corpo


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3 years ago

| (Mal)funziona-menti |

Scrivo questo post per prendermi del tempo, perché ho necessità di ordinare il complesso emotivo nato in seguito al maltempo che sta distruggendo la città in cui sono nata e cresciuta.

È dal 25 ottobre che Catania e i territori limitrofi sono investiti da ciò che i mezzi di comunicazione di massa hanno chiamato “stato di calamità”, “ci aspettano altre ore complicate”, “nubifragio” o “disastro maltempo”. Parole ed espressioni che cercano di riassumere il profondo disagio che sta vivendo il territorio.

Penso a quanto sia automatico trovare qualcuno a cui addossare la colpa per quello che sta accadendo. Si potrebbe incolpare X, perché non ha prestato attenzione alle previsioni del meteo; si potrebbe accusare Y, perché costruisce abusivamente; o forse Z che non si è occupato a sufficienza della manutenzione fognaria del comune. Mi chiedo che senso ha costruire una narrazione che insista sulle cause anziché sugli sviluppi, primeggiando il processo da fare per le insufficienze e per i disservizi?

Lo so che la mia realtà è caratterizzata da “problemi strutturali" e “carenze”. Ne ho preso coscienza quando, nel lontano 2018, ho visto la neve per la prima volta a Bologna. La neve aveva invaso i portici e il parco vicino casa, e sinceramente avevo pensato al peggio. Nel giro di una manciata di minuti però si era presentato un camion spazzaneve e tutto era ritornato alla normalità.

Non voglio modulare i miei pensieri attraverso il divario nord-sud, infatti questa situazione che sto vivendo non ha solo (ri)-portato a galla i limiti e le ristrettezze di contesto, ma anche tutto il sudiciume nato dalla noncuranza degli attori sociali. E tutto questo mi spinge a ragionare su quanto sia difficile ‘far funzionare le cose’. Come si può pensare di ‘far funzionare le cose’ se si vive in un regime del rimandare o della presa di coscienza posticipata?

Curare una città non dovrebbe essere una competenza che rientra nelle skills degli ingegneri o dei tecnici, bensì dovrebbe essere un ambito co-curato, insieme alla partecipazione degli umanisti e degli attori sociali. Per ‘curare la città’ ci dovrebbero essere delle iniziative dal basso, pensate per normalizzare la cura degli ambienti collettivi, come se fossero degli spazi domestici.

Mi spiego meglio.

Noto che c’è una ‘contraddizione’ tra i miei concittadini, in quanto da una lato sacralizzano gli spazi di casa, che vengono organizzati in piccole bomboniere; dall’altro però agli spazi pubblici non vengono rivolte le stesse attenzioni.

Le persone non si dovrebbero educare a campagne promozionali, perché la gente che viene intercettata è sempre poca o non partecipa perché nutre indifferenza verso quelle attività. Per educare alla cura, si dovrebbero conoscere e osservare le abitudini degli attori sociali, per elaborare ‘risposte di contesto’ che si avvicinano alle pratiche quotidiane. Infatti, la letteratura scientifica mostra che nessuno cambiamento è effettivo se ci sono imposizioni. Per cui, la normalizzazione della cura degli ambienti condivisi sarà, forse, attuabile se si originano risposte che partano dall’inclusione e dal coinvolgimento degli attori sociali…

Riconosco che le mie parole e i miei pensieri sono superflui, perché penso alle vite distrutte o ai “sacrifici di una vita” che si sono azzerati, e dunque dovrei semplicemente ascoltare e interrompere questa farneticazione idealista. Ma in cuor mio so che queste non sono “farneticazioni”, ma il prodotto della mia formazione universitaria, che mi ha insegnato a capire che contributo posso dare alla realtà a cui appartengo.


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3 years ago

| Barbero-gate |

Incuriosita dai meme e dal mio Instagram invaso dal Barbero-gate, che ha coinvolto lo storico e divulgatore italiano Alessandro Barbero, ho proceduto a documentarmi.

Cosa è successo?

Il 21 ottobre Silvia Francia, giornalista del quotidiano italiano La Stampa, intitola la sua intervista con Barbero: “Le donne secondo Barbero: “Sono insicure e poco spavalde, così hanno meno successo”, [come si legge sotto].

| Barbero-gate |

Il passo "incriminato" dell’intervista è questo:

Silvia Francia: “Barbero, arrivando a oggi, come mai, secondo lei, le donne faticano tanto non solo ad arrivare al potere, ma anche ad avere pari retribuzione o fare carriera?”.

Alessandro Barbero: "Premesso che io sono uno storico e che quindi il mio compito è quello di indagare il passato e non il presente o futuro, posso rispondere da cittadino che si interroga sul tema. Di fronte all'enorme cambiamento di costume degli ultimi cinquant’anni , viene da chiedersi come mai non si sia più avanti in questa direzione. Ci sono donne chirurgo, altre ingegnere e via citando, ma a livello generale, siamo lontani da un’effettiva parità in campo professionale. Rischio di dire una cosa impopolare, lo so, ma vale la pensa di chiedersi se ci siano differenze strutturali fra uomo e donna che rendono a quest’ultima più difficile avere successo in certi campi. E’ possibile che in media, le donne manchino di quella aggressività, spavalderia e sicurezza di sé che servono ad affermarsi? Credo sia interessante rispondere a questa domanda. Non ci si deve scandalizzare per questa ipotesi, nella vita quotidiana si rimarcano spesso differenze fra i sessi. E c'è chi dice: "Se più donne facessero politica, la politica sarebbe migliore". Ecco, secondo me, proprio per questa diversità fra i due generi".

Ho letto il passo più e più volte, cercando di comprendere cosa avesse detto Barbero per essere investito dalla gogna mediatica che sta avendo luogo sulle varie piattaforme social. È evidente che le parole di Barbero sono state strumentalizzate, per creare notizia (si noti che per accedere all'articolo integrale si deve pagare, ChIsSa PeRChè!1!11!). Se si legge con attenzione Barbero, nel riferire la risposta sta cercando di dare un’ipotesi a ciò che la giornalista ha chiesto. Infatti c’è un punto interrogativo, ma a quanto pare è passato inosservato.

Nelle lezioni di “Metodologia della ricerca etnografica” mi hanno insegnato che quando si costruisce una scaletta di domande si devono evitare domande tendenziose. La giornalista ha posto una domanda tendenziosa-mente, in quanto ha rintracciato già lei uno svantaggio che determina a vita le donne: “le donne faticano tanto”, limitando 'quell'ulteriore' che nasce dal dialogo con l'altro. Io mi sarei chiesta: “Come mai in questo momento storico si discute e si chiama in causa la donna principalmente se ci sono di mezzo questioni di genere?”.

Lo so che viviamo in un sistema sociale organizzato a tal punto che l’uomo è incentivato a esserlo, lo riconosceva già Flaubert che scriveva della disperazione provata da Madame Bovary (1856) nel scoprire che aveva partorito una bambina:

Partorì una domenica alle sei, al levar del sole.

«È una bambina!» disse Charles.

Emma voltò la testa e svenne.

Ad esempio, quando andavo al liceo prendevo l'autobus e notavo che gli autisti erano tutti uomini oppure all’Università che tra i più illustri prof. la maggior parte erano uomini, come tra l'altro sono gli autori che ho studiato nei vari esami. A questo punto non ci vuole un ipotetico "Barbero-alphaman" a far emergere eventuali “differenze strutturali”. C’è un intero sistema organizzato a mantenere e riprodurre asimmetrie di ruolo. Al contempo, però, non posso che guardare critica-mente alla narrazione che descrive il rapporto donna-uomo nel mio contesto culturale e sociale. Non posso permettermi di accettare di riassumerlo attraverso il patriarcato, in quanto ci sono poche occasioni di dibattito critico nelle quali si chiede come si vive il patriarcato o che cosa significa nella quotidianità. Si danno soluzioni preconfezionate, senza chiamare in causa le singole esistenze. Secondo me, il patriarcato non dovrebbe essere né una 'soluzione' né un punto di arrivo, ma un punto di partenza, ovvero? Se c’è questo squilibro uomo-donna iniziamo a capire come viene vissuto e rappresentato a livello esperienziale, per chi lo vive. Chiedendosi ad esempio: come mai in Sicilia si rintracciano poche donne che lavorano per le autolinee? Oppure come mai nelle aule universitarie il pensiero antropologico con cui vengono formati gli/le studenti/studentesse è un sapere prodotto da uomini?

Io non capisco perché sia diventato così ‘automatico’ esprimersi senza aver prima chiesto agli attori sociali; oppure senza aver analizzato a sufficienza le categorie con cui pensiamo il rapporto uomo-donna.

Sitografia

https://www.lastampa.it/topnews/primo-piano/2021/10/21/news/le-donne-secondo-barbero-sono-insicure-e-poco-spavalde-cosi-hanno-meno-successo-1.40833395(intervista Silvia Francia)


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