Laura: Più Un Ragazzo Mi Piace Più Mi Spaventa.

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Laura: Più un ragazzo mi piace più mi spaventa.

Jérôme: Vuoi dire che hai paura di non resistergli?

Laura: No. Io. No. È più complicato di così. Un ragazzo non mi piace tanto perché é bello. Se un ragazzo è gentile vado a spasso con lui per esempio se mi annoio. Se mi annoio chiunque mi sta vicino ho l’impressione di amarlo. Quel che mi secca é che sempre prima o poi lui si dà importanza dice in giro: “È innamorata di me”. Si mette a fare il pascià. Allora è finita.

Le genou de Claire (1970) Éric Rohmer

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3 years ago

| La pubblicità progresso |

Mentre camminavo per le strade di Taormina il mio sguardo viene “catturato”, per deformazione professionale, da questi negozi: “Arte paesana” o “Etnic one”, siti in una delle vie principali del centro.

| La Pubblicità Progresso |
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Mi colpiscono perché sono vocaboli del gergo antropologico, nel senso che la disciplina antropologica da sempre si è confrontata con i concetti di identità e rappresentazione culturale.  

Da brava aspirante ricercatrice mi sono documentata e:

per ciò che concerne “Arte paesana” è «un’attività che affonda le sue radici nella figura di Vincenzo Daneu (Trieste 1860 - Taormina 1937) fonda, a Palermo, un’impresa commerciale, a conduzione familiare, di piccolo e alto antiquariato prediligendo l’arte “paesana” di Sicilia e di Sardegna»; il «punto vendita propone tovaglie e ricami ottocenteschi»;

invece “Etnic one”, come riportato nel sito web, «offre un'esperienza di shopping sensoriale unica ai suoi clienti […] abbigliamento etnico particolare e scelto con cura, gioielli, accessori e home-decor». 

È lampante che questi soggetti imprenditoriali si sono appropriati di alcune terminologie, riadattandole e rivendicandole come segni caratteristici.

In parallelo e sotto un certo punto di vista, queste attività sono portatrici di un’ambivalenza, ovvero che essenzializzano “l’arte del paese” o lo stile etnico.

Ripenso al dibattito nel mondo dell’arte di fine Ottocento, quando l’Occidente istituiva musei e vi esibiva oggetti provenienti dalle colonie d’oltremare. Ad esempio, le maschere africane venivano considerate come “arte primitiva” e gli occidentali si mostravano riluttanti a considerare che quelle potessero essere delle forme di arte alla stregua del Mose di Michelangelo. Sally Price ne I primitivi traditi (1992) «ha messo in discussione l’etnocentrismo con il quale le categorie e le forme di valutazione dell’arte occidentale hanno escluso gli oggetti non-occidentali (Caoci 208, 160)». Infatti, l’arte primitiva veniva considerata semplice ed elementare rispetto a quella occidentale, era vista come il prodotto di pulsioni istintuali o psicologiche. Gli artisti primitivi erano gli «esponenti incontaminati dell’inconscio dell'uomo», mentre gli occidentali erano i soli che potessero accedere ad una forma di estetica cosciente. Pertanto l’arte occidentale non era mai sottoposta alla reazione dei primitivi, perché questi non venivano ritenuti in grado di partecipare ad esperienze estetiche che oltrepassino i confini delle proprie culture. 

Da queste considerazioni è evidente che se leggo “arte paesana” o “etnico” rimango leggermente interdetta, perché ripenso al dibattito che decostruisce ed epura da certe viziositá. Vedere che, invece, c'è una tendenza al ri-attualizzare e al ri-appropriarsi di certe parole è piuttosto curioso ed insolito.

Orbene, con questa riflessione non vorrei essere io a tipicizzare le istanze delle due attività commerciali. Ritengo che sarebbe più produttivo l’ascolto delle scelte dell’imprenditore o della imprenditrice per l’uso di quel termine o di andare direttamente al nocciolo della questione chiedendosi: "ma chi boli diri “arte paesana”? (Per i non catanesi = che significato assumono questi concetti nel XXI secolo?). 

Bibliografia 

Caoci A., 2008, Antropologia, estetica e arte. Antologia di scritti. 

Price S., 1992, I primitivi traditi. L'arte dei «selvaggi» e la presunzione occidentale. 

Siti per approfondire Vincenzo Daneu: (Soprintendenza per i Beni Culturali ed Ambientali di Palermo, via Garibaldi, 41, Palermo (2021) (govserv.org)); Shopping d’autore a Taormina (compagniadeiviaggiatori.com)

Sito web "Etnic One": (etnicone.com/) 


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2 years ago
[irrita-menti]

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Questo post nasce dall’insorgenza di un problema, però poi questo si tramuta in una riflessione sulla natura stessa del mettere in problema la realtà.

Per distrarmi da una psicosi di natura esistenziale-culturale, ho pensato ad un assunto assai frequente nel mio contesto sociale: il mondo è una matassa, un ammasso di problemi. Questi si devono sbrogliare attraverso la razionalità illuminista.

Se mi fermo a pensare con la strumentazione d’indagine antropologica:  non esiste nulla. Cerco di spiegarmi meglio.

Ad esempio, se mi fa male la gola è perché “ho la faringite”, «un’infiammazione della mucosa della faringe, provocata da cause varie tra cui principalmente il freddo, che si manifesta in forme acute o blablablablabla (Fonte: Treccani)». La scienza ci ha fornito questo approccio fondamentale per spiegare la realtà.

Notate il continuo collegamento con la dimensione sociale?

C’è una continua ricerca della spiegazione dell’origine, un meccanismo di attribuzione di senso. Il mondo viene vissuto e continuamente interpretato. I problemi esistono perché c’è un perenne processo di classificazione del reale.

Allo stato attuale è difficile rintracciare una condizione zero: i problemi non esistono ma ce li “inventiamo”, «costruiamo i nostri mondi, in un modo o nell’altro (Piasere 2002)».

E la cosa più scandalosa risulta essere la loro nominazione e categorizzazione. Per cui le esistenze si ritrovano immerse in un circolo vizioso. Si appropriano ed usano terminologie volte a nominare e controllare i problemi.

Vorrei adesso chiedermi: come mai si è impostato un intero sistema che fornisce chiavi di interpretazioni per categorizzare ciò che – apparentemente - non va? Cosa si cela dietro l'atto di problematizzare le esperienze e le interazioni con il mondo?


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3 years ago

Come si sposa la mediocrità dell esistenza con la complessità dell uomo?

Buongiorno Anonimo,

La domanda che mi hai posto è più interessante della risposta che riceverai.

Io credo che l'esistenza in sé non sia mai mediocre. Le sfide e le questioni (esempio lavoro, familia, vita sentimentale, etc.) con cui si rapporta l’essere umano sono già spinose e ricche di sfaccettature, a cui reagisce in maniera diversificata.

Secondo me, la “mediocrità dell’esistenza” non si unirà mai con la "complessità dell'uomo", perché questa condizione è già presente in essere.

Non so se la mia risposta è stata delucidante. Vorrei chiederti, invece, cosa intendi per "complessità" e "mediocrità"?

4 years ago

rule number 2

Rule Number 2

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3 years ago

|| scassa-menti serali ||

Quale sé personale e unico si può sviluppare all'interno di un contesto in cui ognuno va uniformandosi alle tendenze esistenti?

Tutto è un cliché, i pensieri, le posture, i modi di fare, la musica, i film, le estetiche, le parole, le situazioni, i conflitti interiori ed esteriori, questa frase... è un continuo ritornare a ruoli giá assunti, ascoltati e consumati. Per realizzare, infine, che questa condizione viene amplificata dall'auto-rappresentazione perenne.

2 years ago

La riflessione che ci si aspetta da una LaUrEatA in antropologia

Ho trovato da sempre curioso e affascinate lo studio di tutto ciò che la convenzione sociale ha etichettato nei termini di superstizione, per intenderci gatti neri, astri, lettura dei tarocchi, etc.

Procedendo negli studi universitari ho incontrato che questi temi sono stati il cavallo di battaglia di molti esponenti dell'antropologia accademica (come Evans-Pritchard, se non sai chi è "MALISSIMO", ti sto togliendo la membership dal mio blog 😈).

Ora, prendiamo in considerazione la lettura dei tarocchi. La narrazione generale reprime e ridicolizza questa pratica, però si rintraccia un numero crescente di canali yt e tiktok profiles che si dedicano a produrre contenuti e questi hanno un largo seguito.

A questo punto, sarebbe interessante approfondire i seguenti aspetti:

🔮il/la "cartomante" crea un ipotetico scenario, parlando di "cose umane", donando informazioni; 🔮modella queste in base alle aspettative del ricevente; 🔮nel costruire gli scenari ipotetici (es. amore, successo, soldi), plasma l’emotività delle persone. Questa operazione è un po’ simile al ruolo che hanno le culture, nel creare identità e formare gli individui [mi riferisco al processo di antropopoiesi, la «costruzione dell’identità umana (Remotti)»]; 🔮all'interno di questo scenario la differenza la attua il singolo. In che misura? Ordina le informazioni ricevute collegandole al suo vissuto personale. Non c'è un interesse a cogliere la veridicità delle ipotesi proposte, bensì a trovarne una logica di riscontro, un’analogia con il suo vissuto personale; 🔮Infine, credo che, questa pratica debba essere inquadrata all’interno della continua ricerca di senso degli eventi quotidiani che “succedono” nelle singole esistenze: «gli esseri umani sentono il bisogno di trovare una causa a ciò che succede (Rumiati 2000)». Dato che i singoli non sempre riescono, da sole, a comprendere delegano ad altri la responsabilità di interpretare il corso degli eventi.

Bibliografia

Evans-Pritchard E., 1937, Stregoneria, oracoli e magia tra gli Azande

Rumiati R., 2000, Decidere


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3 years ago
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The nanny diaries, 2007

3 years ago

8 agosto || in principio era: “Vabbe’ devo appuntarmi queste cose…”

È legger-mente sconfortante riconoscere, solo al 5 anno di università, che la parte più interessante del mestiere dell’antropologo non sta soltanto nello studio del pensiero di X, Y, Z, ma nel relazionarsi e nel confrontarsi diretta-mente con l’oggetto di studio, cioè con le persone. Le interviste qualitative, che sto realizzando, mi fanno comprendere l’importanza di non tralasciare che, al di là delle teorie, ci sono gli esseri umani in carne ossa.

Quando intervisto — che parolaccia —, quando chiacchiero con i miei “informatori” ho accesso ad un qualcosa — non so come definirlo — che difficilmente trovo nei libri (e credo che non lo troverò mai).

In questi momenti provo sempre qualcosa di diverso, di unico e di irripetibile. Credo che sia un’esperienza

d e s t a b i l i z z a n t e,

che non vorrei declinare  attraverso l’opposizione “positivo/negativo”. Quest’esperienza ha degli elementi, almeno così ho rintracciato, in cui mai nessuno la pensa, davvero, come te. Ciascuno è un universo a sé, vive la società, gli stimoli, l’intera realtà in maniera totalmente inedita, diversa. Anche se a volte mi sembra che tutti i pensieri e le persone si muovano uniforme-mente, realizzo che non è così. E così mi lascio trasportare da ciò che il mio interlocutore decide di raccontami, anziché seguire, tendenziosa-mente, la mia linea di pensiero… È arduo, certamente! Cogliere però il punto di vista dell'altro, documentarlo, ascoltarlo è un passo necessario per capire cosa siano questi problemi del e nel sociale.

3 years ago

| Le strade catanesi |

Sono ferma ad osservare, con anomalo interesse, “la crepa”(scusate, ma il mio vocabolario è sprovvisto di certi tecnicismi) nella strada, conosciuta dai miei concittadini come l’opera di “cattiva amministrazione”... sono in Sicilia, nel regno dell’immobilitismo, ma vi risparmio la filippica, vetusta quanto il complesso Stonehengiano…

Questa "crepa" mi permette di collegarmi al contenuto di una lezione di Geografia in Università, sul ruolo dell’essere umano nel modificare il paesaggio... realizzando che anche la natura procede in questa direzione, intervenendo nella trasformazione degli spazi. Anche se aldilà della bellezza visiva: mi chiedo cosa vuole comunicare questa ri-appropriazione?

| Le Strade Catanesi |

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|lo sguardo di un'aspirante antropologa sul mondo|

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