Come mai si rintracciano poche cantautrici italiane?
Il mondo dei sentimenti e delle emozioni è raccontato in maniera frequente dagli uomini, penso a De Andé, Guccini, Battiato, etc. La mia domanda non è mossa da rivendicazioni femministe - per amor del cielo - la sfera affettiva è una questione esistenziale e universale. Nell’ascolto dei brani scritti da questi, rintraccio che:
1) riescono a cogliere ed intepretare, magistralmente, la condizione umana;
2) ma la narrazione si snoda secondo una prospettiva maschile.
Ascoltare De André che parla di amore è un’esperienza che non pensavo potesse essere, emotivamente, destabilizzante. Il modo in cui ha impostato la melodia, fa sì che ci sia immedesimazione tra testo e suono. C’è, però, qualcosa che manca e che non mi permette di empatizzare a pieno... e che si riconduce alla domanda di apertura...
Non cerco, ovviamente, l’emotività femminile nei brani di De Andrè. Ascoltarlo mi ha fatto realizzare che, a livello generale, mancano donne cantaurici così d’impatto..........
O forse: sono io che sono stata “inculcata” a considerare soltanto questi come interpreti anziché volgere lo sguardo altrove?
|| lagne e vicissitudini umane ||
Certe volte vorrei astenermi dal conoscere “cose di antropologia”, perché cado nell’errore di usare la mia formazione professionale per risolvere questioni che, forse, richiederebbero altri approcci e disposizioni. In queste volte vorrei sradicare e disintegrare le metodologie e gli apparati concettuali che sostanziano il pensiero perché possono trasformarsi in una minorazione e ostacolare il processo conoscitivo.
Mi chiedo a questo punto se non sia arrivato il tempo di riflettere sistematicamente sui limiti del mestiere dell’umanista.
giustificazioni\farneticazioni\spiegazioni.
Vivere ed essere un (bravo) cittadino in un pueblo trinacriese:
- Da ripetere sempre a se stessi: " É colpa dello stato". / "Ma quale Stato? "/ " ...lo stato!";
- Né a X né a Y né a Z sarà mai mostrata fedeltà;
- Osserva individuo 1, individuo 2, invididuo 3, casualmente sono gentili e premurosi, ma lasciano strani santini autorappresentativi. "Ma che vorranno dire, ah?";
- Guarda un po', sta 'sdilluviando', c'è la tempesta!? Destino è;
- Favori e agevolazioni, certo, ma con le penne degli altri;
- "Civiltá, annegamento dei valori e dei principi", "E che vuoi da me, ah?";
- Il colore da preferire è il bianco, un po' come il nero sta bene su tutto;
- "Immobilitismo, astensionismo, qualunquismo. Figli dello stesso padre sono, padre bastardo, lo so"... "Ma tanto che posso fare?". "Io mani legate ho";
- "Come dicevano 'l'antichi' "? / "Mors tua vita mea";
- "Io rido a pensare queste cose, ma piango".
Esercizio per casa, leggi il passo precedente come se fosse un monologo recitato da "il Dottore" di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto.
Non lo so, stasera mi sento abbastanza polemica. Al contempo sto cercando di “accendere” l’antropologa che c’è in me, per addolcire la riflessione con cui sto per stendervi.
Di cosa parliamo questa sera? Di sentimenti amorosi (ahi, come sono banale). Che cosa vi aspettate da una tipa cresciuta con la Disney? xoxo.
Procedo.
Mi sto chiedendo, da circa un’ora, perché nel nostro contesto culturale si cresce con l’idea che dobbiamo sperimentare e nutrire sentimenti d’amore tra noi umani? Più specificatamente, come mai si rintraccia l’esigenza di disciplinare le emozioni che scaturiscono dall’incontro con l’altro, per poi costruirci su qualcosa? Nello specifico:
incontro una persona a me sconosciuta;
per una serie di circostanze cattura la mia attenzione;
la frequento;
se le sue esigenze e i suoi bisogni sono in sintonia = siamo due rette perpendicolari e ci intersechiamo in un solo punto;
se, invece, le istanze sono diverse = siamo due rette parallele, cioè tali da non intersecarci in alcun punto.
Bene, abbozzato questo ragionamento in maniera così brutale che manco uno scienziato sociale positivista, continuo la mia analisi. Questo è quello che ci offre la nostra società: legami tra umani e tra sconosciuti che se si ritrovano copulano, se invece, non sono corrisposti soffrono e si martoriano manco fossero un martire cristiano del I secolo dopo Cristo.
Come mai, nella nostra società, esiste questo “ciclo”? Nel senso perché ci crescono con l’idea di amarci o di star male?
Per comprendere queste questioni, ritengo che sia importante adottare un approccio antropologico per far emergere ciò che molto spesso viene occultato quando si parla di amore.
Ci spingono a credere che l’amore sia qualcosa di spontaneo, ma c’è sempre un processo silenzioso di apprendimento culturale. Ad ogni livello e settore veniamo educati sin dalla nascita. Infatti, se qualcuno non si prendesse cura di noi, moriremo. Non credo che un bambino riuscirebbe a sostentarsi da solo. Di conseguenza l’amore, e tutto ciò che vi orbita intorno, esiste perché c’è un discorso culturale. È stato “qualcuno” che ci ha insegnato a vederlo in una determinata maniera, a essere colpiti da un’estetica; a vederla seguendo “gli opposti si attraggono”; a se “avete passioni in comune è prolifico”. Abbracciamo prospettive e assumiamo atteggiamenti senza saperlo. La cultura, il contesto familiare, le esperienze pregresse in coppia formano l’identità degli amanti.
Io vedo poco spazio nel quale possiamo muoverci liberamente. Gli ideali e l’ambiente ci plasmano. Forse una speranza e una prospettiva di studio diversa la riserbo a quelli incontri che si consumano a occhi chiusi dato che l’occhio scruta indaga registra interpreta... lascerei il resto ai sensi restanti. Chissà cosa succederebbe se ci innamorassimo ad occhi chiusi? Coglieremo forse finalmente l’essenza?
Questo quadro teorico finora proposto è incompleto, perché dovrei supportarlo da un’indagine qualitativa. Dovrei intervistare personalmente chi sperimenta queste dinamiche, per arricchire e sostenere i punti trattati…
Comunque, più studio antropologia e più sclero. Ah, e sto arrivando ad una considerazione: l’unica cosa spontanea del mio contesto culturale è la continua e onnipresente disciplinazione del reale.
Francesco Rosi, Cristo si è fermato a Eboli (1979)
Per i contadini, lo Stato è più lontano del cielo, e più maligno, perché sta sempre dall'altra parte. Non importa quali siano le sue formule politiche, la sua struttura, i suoi programmi. I contadini non li capiscono, perché è un altro linguaggio dal loro, e non c'è davvero nessuna ragione perché li vogliano capire. La sola possibile difesa, contro lo Stato e contro la propaganda, è la rassegnazione, la stessa cupa rassegnazione, senza speranza di paradiso, che curva le loro schiene sotto i mali della natura.
Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli
Relazionandomi con l’altro e di conseguenza, relazionandomi anche con me stessa, sto arrivando ad una considerazione. È importante da riconoscere, sempre, a se stessi e agli altri «cosa si vuole». Perché il resto è un inutile e malsano tentativo di farneticazione ego-orientata.
8 agosto || in principio era: “Vabbe’ devo appuntarmi queste cose…”
È legger-mente sconfortante riconoscere, solo al 5 anno di università, che la parte più interessante del mestiere dell’antropologo non sta soltanto nello studio del pensiero di X, Y, Z, ma nel relazionarsi e nel confrontarsi diretta-mente con l’oggetto di studio, cioè con le persone. Le interviste qualitative, che sto realizzando, mi fanno comprendere l’importanza di non tralasciare che, al di là delle teorie, ci sono gli esseri umani in carne ossa.
Quando intervisto — che parolaccia —, quando chiacchiero con i miei “informatori” ho accesso ad un qualcosa — non so come definirlo — che difficilmente trovo nei libri (e credo che non lo troverò mai).
In questi momenti provo sempre qualcosa di diverso, di unico e di irripetibile. Credo che sia un’esperienza
d e s t a b i l i z z a n t e,
che non vorrei declinare attraverso l’opposizione “positivo/negativo”. Quest’esperienza ha degli elementi, almeno così ho rintracciato, in cui mai nessuno la pensa, davvero, come te. Ciascuno è un universo a sé, vive la società, gli stimoli, l’intera realtà in maniera totalmente inedita, diversa. Anche se a volte mi sembra che tutti i pensieri e le persone si muovano uniforme-mente, realizzo che non è così. E così mi lascio trasportare da ciò che il mio interlocutore decide di raccontami, anziché seguire, tendenziosa-mente, la mia linea di pensiero… È arduo, certamente! Cogliere però il punto di vista dell'altro, documentarlo, ascoltarlo è un passo necessario per capire cosa siano questi problemi del e nel sociale.
[da uno sguardo ampio e generale...
Quando per impostare la tua ricerca quantitativa, devi intercettare gli imprenditori del domani e ti chiedi: "Se fossi un imprenditore che percorso di studio farei?". Giusta-mente per creare quel valore lì, devi solidamente formarti. "In confronto a te, il candido di Voltaire è Arsenio Lupin" concluderai amara-mente.
Ma... Ma? Da un primo lavoro di mappatura, i senior rich-boys, nella maggiorparte dei casi non dispongono di un titolo di studio. E inizi a sclerare. "Dove siete!" urli mental-mente, perchè sai che la telepatia funziona sempre.
Anche se... Anche se!? Anche se, vorresti aprire una ricerca in parallelo, per capire "ti pareva" il motivo della mancata erudizione degli impresari.
... si dettaglierà in seguito]
Il posti di oggi è dedicato allo scontro titanico tra due teorie che ho sempre trovato affascinanti, seppur carenti in alcuni punti. Il determinismo filosofico e il libero arbitrio sono stati il fulcro centrali di molti pensatori, pensiamo a Spinoza o ad Agostino D’Ipponia. Se il determinismo ritiene che l’uomo è espressione della volontà di un “””qualcos’altro”””, il libero arbitrio scioglie questa visione così limitata dando all’uomo quella possibilità di fare e agire che il primo nega. Dunque il futuro viene scoperto o creto? L’uomo è pedina di un percorso oppure ne è l’artefice? Lasciando da parte questa visione leggermente apocalittica e in simil “congrega religiosa” (^.^) ritengo adesso che il “the future” sia il congiugimento di queste due espressioni di pensiero. E’ impensabile ritenere che ci muoviamo all’interno di percorsi e destini prestabiliti, in quanto il tutto sfocierebbe in una visione piuttosto statica e inflessibile. Ma neanche ritenere che tutto dipenda dalla volontà del singolo soggetto è carente. E’ utile adesso generare una visione in cui ritrovare insieme la capacità di costruzione del proprio percorso e “quel qualcosa al di sopra” di lui. Per iniziare ad avere un quadro meno confuso, il “the future” è la somma e il frutto del suo agire. L’uomo poi vive all’interno di un mondo dove “quel qualcosa” riveste anch’esso un ruolo. In conclusione, come l’uomo è creatore, è anche influenzabile dall’azione delle forze di “quel qualcos’altro” in senso negativo che positivo.
... e tu che ne pensi?
|| la Malinowski di Tumblr ||
Durante il proseguire di questa vita, mi capita di incappare in bizzarre contraddizioni borghesi, di ritrovarmi a decriptare movenze e modi di fare. Se però mi fermo un attimo a pensare lucidamente e razionalmente, epurando da qualsiasi forma di emotività: la realtà è abbastanza ovvia. Non c'è bisogno di ragionamenti e di massime confuciane...
Lo so che mi insegnano che c'è sempre una motivazione o una ragione che spinge all'azione, ma io mi rifiuto. Non posso essere un'antropologa h 24.