[da Uno Sguardo Ampio E Generale...

[da uno sguardo ampio e generale...

Quando per impostare la tua ricerca quantitativa, devi intercettare gli imprenditori del domani e ti chiedi: "Se fossi un imprenditore che percorso di studio farei?". Giusta-mente per creare quel valore lì, devi solidamente formarti. "In confronto a te, il candido di Voltaire è Arsenio Lupin" concluderai amara-mente.

Ma... Ma? Da un primo lavoro di mappatura, i senior rich-boys, nella maggiorparte dei casi non dispongono di un titolo di studio. E inizi a sclerare. "Dove siete!" urli mental-mente, perchè sai che la telepatia funziona sempre.

Anche se... Anche se!? Anche se, vorresti aprire una ricerca in parallelo, per capire "ti pareva" il motivo della mancata erudizione degli impresari.

... si dettaglierà in seguito]

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3 years ago

| Memorie dal campo(santo) |

Da quando nonno è andato via frequento più spesso il cimitero. Prima ero solita andarci solo per la ricorrenza istituzionale, nei primi di novembre.

| Memorie Dal Campo(santo) |
| Memorie Dal Campo(santo) |

A ventiquattro anni, mi approccio a questo luogo con una mentalità diversa. Da una parte qui riposano i miei antenati, gli amici di famiglia e le persone che non ho conosciuto, dall'altra sono occasioni per riflettere su tematiche di ordine antropologico e sociale.

La morte e il dolore sono due concetti centrali nello studio dell’uomo. Ad esempio, Michelangelo Giampaoli nel saggio Paris. Una capitale alle porte della città dei morti studia il Pèere-Lachaise di Parigi. Si tratta del cimitero più conosciuto e visitato al mondo, dove «quotidianamente entrano ed escono differenti flussi di persone, soprattutto turisti data la presenza di monumenti in onore di persone famose (2011)», per citare qualche nome Oscar Wilde, Édith Piaf, Jim Morrison. Nel cimitero sono presenti pratiche a scopo commemorativo che economico: «all’interno del Pére-Lachaise domina un sistema di economia informale che ruota attorno» a bar, ristoranti o a coloro che si propongono di fare da «guida» turistica per addentrarsi nelle vie del cimitero.

Giugendo a me. Nel piccolo cimitero di paese che frequento sicuramente non possono verificarsi queste condizioni, dato lo scarso numero di fequentatori. Ciò che invece rintraccio è il particolare legame che si instaura tra chi resta e chi se ne va. È un legame che nasce dalla frequentazione e dal sentimento empatico verso le sofferenze altrui. I vivi alimentano l’esistenza di una persona, seppur non sia più presente a livello fisico. Ho sperimentato anch'io questa condizione.

Nel corridoio che porta alla tomba dei miei nonni paterni, si trova una ragazza a cui mia madre faceva il doposcuola. Ho iniziato ad affezionarmi a lei e alla sua storia senza averla mai conosciuta, "instaurando" un ricordo-immagine di lei. Comprendo solo adesso quanto questo luogo sia sottovalutato...

«L’evento-morte, la presenza del cadavere non è soltanto distruzione e crisi del senso ma, per certi versi, è all’origine della costruzione del significato dell’esistenza (Favole, Lingi 2004)».

In questi luoghi i vivi danno continuità alle esistenze interrotte. I frequentatori puliscono, ordinano e impreziosiscono le lapidi, gli altari e nel frattempo parlano e intavolano discorsi tra di loro che tra chi “sta lì”, riattualizzando così le persone e le loro storie:

«Se da un lato il morire è un processo disgregativo ed entropico, che introduce caos e disordine […] dall'altro – mediante i significati simbolici che riceve secondo modalità transculturalmente specifiche – esso genera forme sofisticate di organizzazione, ordina luoghi, connota spazi, costruisce cosmologie, orienta comportamenti: riannoda fili di senso sulla natura stessa della vita (2004)».

Bibliografia

Favole A., Ligi G., 2004, L'antropologia e lo studio della morte: credenze, riti, luoghi, corpi, politiche.

Giampaoli M., 2011, Paris. Una capitale alle porte della città dei morti, in Antropologi in città (a cura di Stefano Allovio).


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3 years ago

Nessuno:

Proprio nessuno:

Perennemente io:

"Un antropologo può realmente creare una situazione controllata in cui provocare la sua «natura», cioè la gente che studia, per analizzare le risposte? (Piasere, L'etnografo imperfetto. Esperienza e cognizione in antropologia)".

4 years ago

4 giugno, ancora.

Non lo so, stasera mi sento abbastanza polemica. Al contempo sto cercando di “accendere” l’antropologa che c’è in me, per addolcire la riflessione con cui sto per stendervi.

Di cosa parliamo questa sera? Di sentimenti amorosi (ahi, come sono banale). Che cosa vi aspettate da una tipa cresciuta con la Disney? xoxo.

Procedo.

Mi sto chiedendo, da circa un’ora, perché nel nostro contesto culturale si cresce con l’idea che dobbiamo sperimentare e nutrire sentimenti d’amore tra noi umani? Più specificatamente, come mai si rintraccia l’esigenza di disciplinare le emozioni che scaturiscono dall’incontro con l’altro, per poi costruirci su qualcosa? Nello specifico:

incontro una persona a me sconosciuta;

per una serie di circostanze cattura la mia attenzione;

la frequento;

se le sue esigenze e i suoi bisogni sono in sintonia = siamo due rette perpendicolari e ci intersechiamo in un solo punto;

se, invece, le istanze sono diverse = siamo due rette parallele, cioè  tali da non intersecarci in alcun punto.

Bene, abbozzato questo ragionamento in maniera così brutale che manco uno scienziato sociale positivista, continuo la mia analisi. Questo è quello che ci offre la nostra società: legami tra umani e tra sconosciuti che se si ritrovano copulano, se invece, non sono corrisposti soffrono e si martoriano manco fossero un martire cristiano del I secolo dopo Cristo.

Come mai, nella nostra società, esiste questo “ciclo”? Nel senso perché ci crescono con l’idea di amarci o di star male? 

Per comprendere queste questioni, ritengo che sia importante adottare un approccio antropologico per far emergere ciò che molto spesso viene occultato quando si parla di amore.

Ci spingono a credere che l’amore sia qualcosa di spontaneo, ma c’è sempre un processo silenzioso di apprendimento culturale. Ad ogni livello e settore veniamo educati sin dalla nascita. Infatti, se qualcuno non si prendesse cura di noi, moriremo. Non credo che un bambino riuscirebbe a sostentarsi da solo. Di conseguenza l’amore, e tutto ciò che vi orbita intorno, esiste perché c’è un discorso culturale. È stato “qualcuno” che ci ha insegnato a vederlo in una determinata maniera, a essere colpiti da un’estetica; a vederla seguendo “gli opposti si attraggono”; a se “avete passioni in comune è prolifico”. Abbracciamo prospettive e assumiamo atteggiamenti senza saperlo. La cultura, il contesto familiare, le esperienze pregresse in coppia formano l’identità degli amanti.

Io vedo poco spazio nel quale possiamo muoverci liberamente. Gli ideali e l’ambiente ci plasmano. Forse una speranza e una prospettiva di studio diversa la riserbo a quelli incontri che si consumano a occhi chiusi dato che l’occhio scruta indaga registra interpreta... lascerei il resto ai sensi restanti. Chissà cosa succederebbe se ci innamorassimo ad occhi chiusi? Coglieremo forse finalmente l’essenza?

Questo quadro teorico finora proposto è incompleto, perché dovrei supportarlo da un’indagine qualitativa. Dovrei intervistare personalmente chi sperimenta queste dinamiche, per arricchire e sostenere i punti trattati…

Comunque, più studio antropologia e più sclero. Ah, e sto arrivando ad una considerazione: l’unica cosa spontanea del mio contesto culturale è la continua e onnipresente disciplinazione del reale.


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3 years ago

| Patine e saponi |

Se c’è una cosa che ho imparato frequentando questa esistenza: è la capacità posseduta dall'essere umano nel trovare i difetti e le storture altrui per sentirsi migliore. Ho realizzato questo nel momento in cui ho osservato sotto una luce diversa le pagine Instagram che si occupano di “svelare” le falle nella rappresentazione estetica di instagram-models, beauty-stars e influencers.

Da sempre le culture sono interessate a forgiare i corpi in determinate forme ed estetiche. Ad esempio, Francesco Remotti in Cultura sul corpo analizza in maniera dettagliata le pratiche di cura e controllo sui corpi, dato che

«l’essere umano può / deve essere plasmato; […] essendo [...] una sostanza malleabile, simile a “cera”, esso richiede un intervento che gli dia “forma” e “figura” […] l’intervento plasmatore, reso necessario dalla mancanza di forma originaria, è in quanto tale di tipo estetico: ha a che fare immediatamente con la “bellezza” (2015, 5)».

Queste pagine sono solite accostare il termine ‘bellezza’ a quello di 'falso'. Reinventano l’acqua calda in buona sostanza, ma il punto non è questo. Ciò che mi incuriosisce è la loro organizzazione, 'mission’ e leitmotiv.

Il meccanismo di funzionamento consiste nel mostrare il prima/dopo, la fotopostata/realtà, il ieri/oggi di un soggetto (nella maggior parte dei casi si tratta di donne) per far realizzare che tutto è un artefatto, creato dagli interventi chirurgici, dai giochi di luci, dalle angolazioni e da Photoshop.

| Patine E Saponi |
| Patine E Saponi |

(immagini a scopo illustrativo)

La comunicazione adottata da queste pagine è d’impatto, in quanto si affidano ad un silenzioso gioco di potere insito nella riproduzione dell'immagine dell'altro. Dal punto di vista teorico e antropologico, un’immagine non è «soltanto un prodotto di un determinato mezzo», è anche un «prodotto del nostro io, nel quale generiamo immagini personali (sogni, immaginazione e percezioni) che interagiscono con le altre immagini del mondo visibile (Belting 2001, 10)» ed inoltre le immagini dipendono da due «atti simbolici»: «l’atto della fabbricazione e l’atto della percezione (Belting 2001, 11)». Da queste basi, lo spettatore viene, inconsapevolmente, guidato a osservare e sentire l'altro attraverso le sue finzioni, i suoi "difetti" e le sue "deformazioni ", che vengono evidenziate e cerchiate. Ciò comporta una demonizzazione dell'immagine dell'altro, come mostrano i commenti lasciati sotto ai post.

Qualcuno potrebbe risentirsi dalle mie posizioni sostenendo che queste pagine hanno un potere “salvifico”, in quanto ci ricordano che la perfezione non appartiene a noi umani; che la realtà è un’altra oppure che non vogliono screditare quel soggetto rappresentato. Certo è nobile questa operazione di smascheramento e di messa in critica degli idealtipi estetici propinati dal mio contesto culturale, ma a questo punto mi chiedo: 1) come mai il discorso di accettazione personale deve passare attraverso la deturpazione dell’immagine altrui?; 2) perchè non pensare di creare attività volte alla conoscenza delle ragioni e delle motivazioni che spingono i soggetti a ricorrere a quella presentazione?

Bibliografia

Belting H., 2001, Antropologia delle immagini

Eco U., 2004, Storia della bellezza

Remotti F., 2015, Cultura sul corpo


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3 years ago

| Barbero-gate |

Incuriosita dai meme e dal mio Instagram invaso dal Barbero-gate, che ha coinvolto lo storico e divulgatore italiano Alessandro Barbero, ho proceduto a documentarmi.

Cosa è successo?

Il 21 ottobre Silvia Francia, giornalista del quotidiano italiano La Stampa, intitola la sua intervista con Barbero: “Le donne secondo Barbero: “Sono insicure e poco spavalde, così hanno meno successo”, [come si legge sotto].

| Barbero-gate |

Il passo "incriminato" dell’intervista è questo:

Silvia Francia: “Barbero, arrivando a oggi, come mai, secondo lei, le donne faticano tanto non solo ad arrivare al potere, ma anche ad avere pari retribuzione o fare carriera?”.

Alessandro Barbero: "Premesso che io sono uno storico e che quindi il mio compito è quello di indagare il passato e non il presente o futuro, posso rispondere da cittadino che si interroga sul tema. Di fronte all'enorme cambiamento di costume degli ultimi cinquant’anni , viene da chiedersi come mai non si sia più avanti in questa direzione. Ci sono donne chirurgo, altre ingegnere e via citando, ma a livello generale, siamo lontani da un’effettiva parità in campo professionale. Rischio di dire una cosa impopolare, lo so, ma vale la pensa di chiedersi se ci siano differenze strutturali fra uomo e donna che rendono a quest’ultima più difficile avere successo in certi campi. E’ possibile che in media, le donne manchino di quella aggressività, spavalderia e sicurezza di sé che servono ad affermarsi? Credo sia interessante rispondere a questa domanda. Non ci si deve scandalizzare per questa ipotesi, nella vita quotidiana si rimarcano spesso differenze fra i sessi. E c'è chi dice: "Se più donne facessero politica, la politica sarebbe migliore". Ecco, secondo me, proprio per questa diversità fra i due generi".

Ho letto il passo più e più volte, cercando di comprendere cosa avesse detto Barbero per essere investito dalla gogna mediatica che sta avendo luogo sulle varie piattaforme social. È evidente che le parole di Barbero sono state strumentalizzate, per creare notizia (si noti che per accedere all'articolo integrale si deve pagare, ChIsSa PeRChè!1!11!). Se si legge con attenzione Barbero, nel riferire la risposta sta cercando di dare un’ipotesi a ciò che la giornalista ha chiesto. Infatti c’è un punto interrogativo, ma a quanto pare è passato inosservato.

Nelle lezioni di “Metodologia della ricerca etnografica” mi hanno insegnato che quando si costruisce una scaletta di domande si devono evitare domande tendenziose. La giornalista ha posto una domanda tendenziosa-mente, in quanto ha rintracciato già lei uno svantaggio che determina a vita le donne: “le donne faticano tanto”, limitando 'quell'ulteriore' che nasce dal dialogo con l'altro. Io mi sarei chiesta: “Come mai in questo momento storico si discute e si chiama in causa la donna principalmente se ci sono di mezzo questioni di genere?”.

Lo so che viviamo in un sistema sociale organizzato a tal punto che l’uomo è incentivato a esserlo, lo riconosceva già Flaubert che scriveva della disperazione provata da Madame Bovary (1856) nel scoprire che aveva partorito una bambina:

Partorì una domenica alle sei, al levar del sole.

«È una bambina!» disse Charles.

Emma voltò la testa e svenne.

Ad esempio, quando andavo al liceo prendevo l'autobus e notavo che gli autisti erano tutti uomini oppure all’Università che tra i più illustri prof. la maggior parte erano uomini, come tra l'altro sono gli autori che ho studiato nei vari esami. A questo punto non ci vuole un ipotetico "Barbero-alphaman" a far emergere eventuali “differenze strutturali”. C’è un intero sistema organizzato a mantenere e riprodurre asimmetrie di ruolo. Al contempo, però, non posso che guardare critica-mente alla narrazione che descrive il rapporto donna-uomo nel mio contesto culturale e sociale. Non posso permettermi di accettare di riassumerlo attraverso il patriarcato, in quanto ci sono poche occasioni di dibattito critico nelle quali si chiede come si vive il patriarcato o che cosa significa nella quotidianità. Si danno soluzioni preconfezionate, senza chiamare in causa le singole esistenze. Secondo me, il patriarcato non dovrebbe essere né una 'soluzione' né un punto di arrivo, ma un punto di partenza, ovvero? Se c’è questo squilibro uomo-donna iniziamo a capire come viene vissuto e rappresentato a livello esperienziale, per chi lo vive. Chiedendosi ad esempio: come mai in Sicilia si rintracciano poche donne che lavorano per le autolinee? Oppure come mai nelle aule universitarie il pensiero antropologico con cui vengono formati gli/le studenti/studentesse è un sapere prodotto da uomini?

Io non capisco perché sia diventato così ‘automatico’ esprimersi senza aver prima chiesto agli attori sociali; oppure senza aver analizzato a sufficienza le categorie con cui pensiamo il rapporto uomo-donna.

Sitografia

https://www.lastampa.it/topnews/primo-piano/2021/10/21/news/le-donne-secondo-barbero-sono-insicure-e-poco-spavalde-cosi-hanno-meno-successo-1.40833395(intervista Silvia Francia)


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3 years ago

23:20 || 19 agosto || ripristina-menti

In questi giorni sto cercando di intraprendere nuove prospettive per approcciarmi a questa realtà satura di esistenze.

Nelle ultime settimane sto ascoltando e vedendo che tante persone rimangono impigliate in circoli viziosi che sembrano essere deleteri. E tra queste alcune mi fanno proprio alzare gli occhi al cielo, perché applico un riduzionismo di tipo cinico...

Ciononostante mi impongo di superare la superficialità. E mi metto in testa che vorrei spiegare un sacco di cose; usare quello che sto imparando dalla teoria per aiutare, per confortare; provare a spiegare come funziona la sofferenza che viene impressa dalla società (es. gli ideali, i desideri, rapporto uomo-donna); insomma di fornire mezzi per uscire dal destino triste a cui ci condanna il nostro contesto sociale.

Poi, però, mi ricordo che sto tralasciando un aspetto. Queste sono solo le mie volontà. Capisco che devo fermarmi e fare un passo indietro. Non posso avere la presunzione di limitare l'agentivitá altrui e plasmarla secondo il mio punto di vista. Inizio così a chiedermi: questa persona che ho davanti cosa si aspetta da me? Cosa mi sta comunicando? Cosa sta significando per lei questa condivisione? É solo un riferirmi il suo stato d'essere? Oppure dietro risiedono altri meccanismi o simboli che non riesco a cogliere?


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2 years ago

¿Qué pasa? // Contamin(a)zioni

Ore 08:16. Via indipendenza. Bologna. Mi vedo passare un rider (presubilmente Asia meridionale) è spiccicato Lucio Dalla nella copertina dell'album del '79.

Ore 8:25. Via Irnerio. Sempre Bologna. Sto aspettando il bus e accanto a me c'è un ragazzo, sulla 30ina, azzardo Africa del Nord, è identico ad Antonello Venditti in Le cose della vita '75.

In questo scenario mi chiedo cosa é una differenza culturale? Non è che questa esiste, ancor prima nell'effettivo, a livello astratto? Ha ancora senso parlare di mondi e culture diverse nell'era del contagio culturale agile?

Starò sognando? Mi pizzico il braccio. No.


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4 years ago

5.05.2021

Mh, stamani dubbi arcaici: peculiarità innate o processi autoindotti?

2 years ago

|| Ricorda che la dominazione/estraniazione dall'evento risiede nella sua ripetizione simbolica.


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3 years ago

|| Note a margine

Quando stai rielaborando concetti e parole di terzi per cercare di costruire una coerenza narrativa e logica, pensi: "Ma che fatica!". Oppure passi ogni tre secondi a chiederti: "Ma sto interpretando correttamente le parole di questa persona? Sto riuscendo a capire e a rendere ciò che mi sta dicendo?".

Vorrei ritornare adesso a tradurre quei minidialoghi basic del liceo, quelli che si trovano nei libri per apprendere le lingue straniere.

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Penso che cogliere il punto di vista di una persona che parla la mia stessa lingua, a volte, non ne determina l'effettiva comprensione, perché entrano in gioco le diverse sfumature di significato, le intenzioni, gli elementi paraverbali, le espressioni non verbali e su questi non sono stati ancora ideati vocabolari e dizionari.


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    mynameis-gloria liked this · 2 years ago
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|lo sguardo di un'aspirante antropologa sul mondo|

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