| Disordine funzionale |
In preda ad un attacco di nostalgia riprendo in mano un vecchio manuale di Antropologia culturale, nel quale Ugo Fabietti scrive:
« [l’antropologia] studia [..] le idee e i comportamenti che sono caratteristici degli esseri umani che vivono in società fra loro lontane nello spazio e diverse per tradizioni, costumi e stili di vita»
Da qui hanno origine i miei svalvo(la-menti).
Dal punto di vista teorico, l’antropologia considera gli atti umani come un’espressione culturale. Lo scambio mondo-soggetto è disciplinato a livello locale: l’essere umano è un artificio culturale. Questa interpretazione è peró incompleta perché non si riconosce al singolo soggetto un’agentività, dato che è essenzialmente in balia del proprio contesto culturale. Alcuni antropologi contemporanei (es. Thomas J. Csordas), danno all'essere umano un ruolo attivo. Lo scambio mondo-soggetto non è vissuto passivamente, in quanto le singole esistenze vivono il mondo attraverso il loro corpo.
Allo stato attuale delle cose, però, rimane ancora da riflettere significativamente sui concetti di “autenticità” e “spontaneità” che caratterizzano la realtà quotidiana. Se ogni cosa esistente è una rielaborazione intenzionale: che cosa sta alla base del concetto di naturalezza? O invece si dovrebbero ri-pensare radicalmente questi concetti?
Da studiosa di antropologia e da essere umano non posso che vivere un profondo senso di disagio esistenziale, ma d'altronde - da bimba di 🧡Geertz 🧡- penso alla mission dell’antropologo:
«Con non poco successo abbiamo cercato di scuotere il mondo, tirando da sotto i piedi i tappeti, rovesciando tavolini da té, facendo esplodere petardi. Compito di altri è stato di rassicurare, il nostro quello di destabilizzare. Fra australopitechi, bricconi, consonanti avulsive, megaliti noi siamo insomma venditori ambulanti di anomalie, spacciatori di stranezze, mercanti di stupore».
Bibliografia
Csordas T. J. C., 2003, Incorporazione e fenomenologia. culturale
Fabietti U., Antropologia.
| (Mal)funziona-menti |
Scrivo questo post per prendermi del tempo, perché ho necessità di ordinare il complesso emotivo nato in seguito al maltempo che sta distruggendo la città in cui sono nata e cresciuta.
È dal 25 ottobre che Catania e i territori limitrofi sono investiti da ciò che i mezzi di comunicazione di massa hanno chiamato “stato di calamità”, “ci aspettano altre ore complicate”, “nubifragio” o “disastro maltempo”. Parole ed espressioni che cercano di riassumere il profondo disagio che sta vivendo il territorio.
Penso a quanto sia automatico trovare qualcuno a cui addossare la colpa per quello che sta accadendo. Si potrebbe incolpare X, perché non ha prestato attenzione alle previsioni del meteo; si potrebbe accusare Y, perché costruisce abusivamente; o forse Z che non si è occupato a sufficienza della manutenzione fognaria del comune. Mi chiedo che senso ha costruire una narrazione che insista sulle cause anziché sugli sviluppi, primeggiando il processo da fare per le insufficienze e per i disservizi?
Lo so che la mia realtà è caratterizzata da “problemi strutturali" e “carenze”. Ne ho preso coscienza quando, nel lontano 2018, ho visto la neve per la prima volta a Bologna. La neve aveva invaso i portici e il parco vicino casa, e sinceramente avevo pensato al peggio. Nel giro di una manciata di minuti però si era presentato un camion spazzaneve e tutto era ritornato alla normalità.
Non voglio modulare i miei pensieri attraverso il divario nord-sud, infatti questa situazione che sto vivendo non ha solo (ri)-portato a galla i limiti e le ristrettezze di contesto, ma anche tutto il sudiciume nato dalla noncuranza degli attori sociali. E tutto questo mi spinge a ragionare su quanto sia difficile ‘far funzionare le cose’. Come si può pensare di ‘far funzionare le cose’ se si vive in un regime del rimandare o della presa di coscienza posticipata?
Curare una città non dovrebbe essere una competenza che rientra nelle skills degli ingegneri o dei tecnici, bensì dovrebbe essere un ambito co-curato, insieme alla partecipazione degli umanisti e degli attori sociali. Per ‘curare la città’ ci dovrebbero essere delle iniziative dal basso, pensate per normalizzare la cura degli ambienti collettivi, come se fossero degli spazi domestici.
Mi spiego meglio.
Noto che c’è una ‘contraddizione’ tra i miei concittadini, in quanto da una lato sacralizzano gli spazi di casa, che vengono organizzati in piccole bomboniere; dall’altro però agli spazi pubblici non vengono rivolte le stesse attenzioni.
Le persone non si dovrebbero educare a campagne promozionali, perché la gente che viene intercettata è sempre poca o non partecipa perché nutre indifferenza verso quelle attività. Per educare alla cura, si dovrebbero conoscere e osservare le abitudini degli attori sociali, per elaborare ‘risposte di contesto’ che si avvicinano alle pratiche quotidiane. Infatti, la letteratura scientifica mostra che nessuno cambiamento è effettivo se ci sono imposizioni. Per cui, la normalizzazione della cura degli ambienti condivisi sarà, forse, attuabile se si originano risposte che partano dall’inclusione e dal coinvolgimento degli attori sociali…
Riconosco che le mie parole e i miei pensieri sono superflui, perché penso alle vite distrutte o ai “sacrifici di una vita” che si sono azzerati, e dunque dovrei semplicemente ascoltare e interrompere questa farneticazione idealista. Ma in cuor mio so che queste non sono “farneticazioni”, ma il prodotto della mia formazione universitaria, che mi ha insegnato a capire che contributo posso dare alla realtà a cui appartengo.
Se si chiedesse di spiegarne il perché sinceramente, ricevereste in cambio un niente
Laura: Più un ragazzo mi piace più mi spaventa.
Jérôme: Vuoi dire che hai paura di non resistergli?
Laura: No. Io. No. È più complicato di così. Un ragazzo non mi piace tanto perché é bello. Se un ragazzo è gentile vado a spasso con lui per esempio se mi annoio. Se mi annoio chiunque mi sta vicino ho l’impressione di amarlo. Quel che mi secca é che sempre prima o poi lui si dà importanza dice in giro: “È innamorata di me”. Si mette a fare il pascià. Allora è finita.
Le genou de Claire (1970) Éric Rohmer
Come si entra real-mente in relazione con l’altro, dal momento che le singole individualità possono rivelarsi “ingombranti” ai fini relazionali?
Perchè non ci sono momenti dedicati all’approfondimento della possibilità disastrosa dello star insieme?
Ad antropologia, mi insegnano:
la sospensione del giudizio,
le tecniche empatiche,
il relativismo,
l’approccio critico...
=> ma è tutto così astratto e poco sponteneo!
A volte, però, tralasciano che: è importante evidenziare anche la dimensione più istintiva ed emozionale, nata nell’incontro con l’altro!
Vorrei conoscere più studiosi e accademici come Malinowski, uno dei più celebri antropologi del ‘900, che nel suo diario di campo in Papua Nuova Guinea scriveva:
«Pensai al mio atteggiamento attuale verso il lavoro etnografico e verso gli indigeni. Alla mia antipatia per loro, alla mia nostalgia per la civiltà»
- tratto da Giornale di un antropologo, Bronislaw Malinowski, Armando Editore, 1992, p. 106.
Anche se il diario di Malinowski è stato pubblicato postumo: le sue annotazioni - patrimonio dell’Unesco - aprono riflessioni e spunti inediti...
|| L(a-scesa) ||
Una goccia sta scendendo dritta dritta verso il basso. Ne segue un'altra. Queste non sono fredde, come ci si aspetterebbe, bensì sono calde, quasi bollenti. Ne corre giù un’altra ancora, discendendo lentamente come se portasse con sé un peso. La discesa delle gocce non si arresta: è un fiume in piena.
È come se si stesse verificando la condizione della ruminazione mentale. Si presenta una macchia, che tende a espandersi e a egemonizzare, prepotente-mente, l’intero spazio. La mente viene così assaltata da costanti: le promesse infrante, le congiunzioni non pervenute, l’utopia pacifista che tarda ad arrivare, l’arresto dei sensi, la natura cattiva, le farneticazioni, gli egoismi, le megalomanie dell’ego. I pensieri scorrono e non si possono più fermare. Per quante volte si cerchi di rintracciare le origini e le cause, né l'atto di fede né lo studio speculativo sono in grado di gestire l’intero processo. Forse lo si potrebbe tollerare attraverso una spassionata ricerca, un’attività intellettuale che lenisce e acquieta quei costanti e asfissianti flussi.
|| keep it in case of an emergency ||
Movi-menti
L'emozione è un fenomeno sociale che deriva dall’interpretazione e dalla valutazione di uno stimolo, ossia da un processo di attribuzione di senso e valore. Le emozioni sono quindi considerate come modelli di esperienza acquisiti, costituiti da prescrizioni e apprendimenti sociali, storicamente situati e strutturati sulla base del sistema di credenze, dell’ordine morale, delle norme sociali e del linguaggio, propri di una particolare comunità e variabili come qualsiasi altro fenomeno culturale.
L'antropologia mi ha insegnato ad approcciarmi alle persone con attenzione e cura, per allontanare l'attidudine critico-distruttiva che mi ha "donato" il mio contesto culturale e religioso. Eppure fallisco, cadendo nella trappola delle emozioni.
"Ascolta il corpo". "Mettiti in sintonia con le tue emozioni". "Cosa senti?", sto già figurando la scena. I luminari della psiche e delle emozioni consiglierebbero una sana conversazione con il sé ed il complesso emotivo per far emergere luci e ombre, costitutive della vita. So che hanno ragione, ma qualcosa mi impedisce di prendere seria-mente in considerazione queste esort(azioni). E finisco per comprimere ed osservare con freddezza ciò che fino ad un momento fa mi colpiva, realizzando però che questa non è la via da perseguire...
usare "il proprio il corpo come strumento privilegiato di ricerca"
Ricorda che: la falla del sistema risiede nell’occhio, nella maniera in cui osserva e, poi, ricostruisce la realtà.
| Se l’acqua calda venisse teorizzata |
Fino ad un certo punto della mia esistenza ho ritenuto che le estetiche, le mode e le tendenze si dividessero in due categorie: quelle della ‘massa’ e quelle ‘ricercate’. Con la frequentazione e l’osservazione dei contesti virtuali (odio questa parola ma è per intenderci) ho mutato di pensiero. Inizio a guardare la distinzione in maniera più critica, affermando che essa è semplice-mente un artificio culturale e che non tiene in considerazione la realtà odierna.
In tempi recenti, mi sono approcciata a nuovi universi (cinema, musica, letteratura) ritenendo che alcuni stili fossero di una cerchia “ristretta”, “unici” e di difficile accesso, ma quando ho iniziato a cercarli online: è emersa una solida rete di proseliti che si nutre ed alimenta questi contenuti (blog, video su Youtube, playlist).
Sicuramente verrò tacciata di ingenuità, ma credo che fino a pochi anni fa non era così.
C’è un preciso momento che ha portato all’omogeneizzazione delle estetiche: l’avvento di internet, che ha permesso di andare oltre il concetto di 'nicchia'. Ad “aggravare” ulteriormente la situazione interviene quel fastidioso e invasivo meccanismo di personalizzazione dei contenuti: se inizio a ‘likkare’ i post dedicati ai meme sui gattini mi piazzano tutti gli account e i profili correlati, andando a radicalizzare la mia identità e "ad aggiungerla" ad altre persone per quel principio di "in comune" o "nella mia cerchia".
In questo scenario, tutto può trasformarsi in comunità di seguaci e le demarcazioni saltano grazie agli hashtags o agli "account simili ".
A questo punto il rapporto tra oggetto e fruitore dovrebbe essere guardato con più sincerità e onestà. Quanto a me, dovrei togliere quell’aura di misticismo che aleggia intorno a certe forme "d'arte".
17:10 || continua il refresh
Nei primi tempi a Bologna, in università soprattutto, ho incontrato persone nordiche (*) che sostenevano: “Ma voi non parlate, urlate”, riferendosi al fatto che i siciliani hanno un tono di voce abbastanza alto. Al ché da buona patriota ho prontamente rigettato quelle tesi, riconducendole a quell’insieme di stereotipi che danno ai nordici (e anche a quelli del sud) per rendere pensabili le rispettive categorie d’appartenenza.
Circa una decina di minuti fa sento dei ragazzi in strada, qui in Sicilia, che comunicano tra loro quasi gridando. Penserete che: “In fondo lo stereotipo tanto stereotipo non è”, no? Eh no, perché anche se sono sicula non sono riuscita a capire se stavano dialogando o litigando. Resterò col dilemma in eterno...
(*) inteso come gente del nord.